Mese: giugno 2012
La psicologia dell’invidia
Una possibile rielaborazione del concetto di invidia in ambito Junghiano
Una accurata ricerca sull’argomento invidia porta ad un escursus della letteratura psicanalitica, possiamo far risalire a Sigmund Freud la prima elaborazione del concetto di invidia. Nella teoria del complesso edipico negativo, il bambino, prova invidia per la femminilità e la sua capacità generativa. Tanti simbolismi onirici furono interpretati dal padre della psicoanalisi come vera e propria invidia per la gravidanza. L’invidia del pene era invece attribuita alla bambina e con questa prima concettualizzazione, l’invidia, come sentimento a sé, svincolato dalla gelosia e dalla rivalità, prese piede e acquistò importanza sino al punto di diventare causa dell’analisi interminabile nelle donne.
La Klein, seguendo Freud attribuì ancora più importanza all’invidia e attribuì a questo sentimento una valenza ancora maggiore. Nello scritto “ Il complesso edipico alla luce delle angosce primitive” del 1945, l’autrice considera l’invidia del pene espressione della bisessualità nella bambina. La bisessualità nasce dall’invidia primaria per il corpo della madre che viene fantasticato come contenente il pene paterno e i bambini. La prima forma di invidia è nei confronti del materno, la seconda nasce dal desiderio inappagato di possedere il padre nell’amplesso sessuale. Anche per il maschietto il primo sentimento d’invidia nasce nei confronti del materno, del corpo femminile che può contenere il pene ed i bambini. Nello scritto del 1957, “Invidia e gratitudine” , la Klein ritiene che l’invidia sia uno degli affetti più precoci e fondamentali. Scrive, infatti, che sorge nella primissima infanzia e che la prima forma di invidia è rivolta proprio al seno, fonte di nutrimento. La nutrizione e la cura materna suscitano per l’autrice, due opposti sentimenti: da un lato gratitudine cioè l’amore e l’attaccamento che subentrano alla gratificazione; dall’altro l’invidia derivante dalla “paura” successiva alla constatazione che amore, nutrizione e benessere non sono sempre disponibili poiché provengono da qualcuno “fuori di sé”. L’invidia del seno è invidia delle prerogative positive del materno, in quanto fonte di amore, nutrimento e creatività; secondo la Klein, l’invidia per il seno nasce anche dalla fantasia che quando le sue risorse non sono accessibili, immagina che siano egoisticamente godute dal seno stesso.
L’invidia, dunque, non pare nascere solo dalla gratificazione,dal riconoscere le ricchezze e il nutrimento o dalla frustrazione di quest’ultimo, ma proprio da queste due caratteristiche insieme. Quando inizia ad emergere l’io dell’infante, questi si accorge di essere separato dalla madre e riconosce l’ “oggetto seno”, altro da se. L’infante riconosce di non essere autogratificante e che la gratificazione ed il piacere assieme al nutrimento gli arrivano dall’esterno, egli capisce che il beato stato fusionale è irrevocabilmente finito.
Questo pare avere, infondo, assonanze con gli stadi di sviluppo della coscienza postulati da Neumann: se si volesse leggere le considerazioni Kleiniane in un’ ottica junghiana, quest’invidia non parrebbe altro che un sentimento nei confronti dell’archetipo femminile idealizzato e ritenuto fonte di tutto il bene.
Come afferma Neumann in “Origini della coscienza” la psiche, sotto la spinta della differenzazione e dello sviluppo, emerge dallo stato uroborico ed in questo momento emerge la coscienza. È proprio in questo momento che con l’emergere dell’io o di quella che l’autore chiama “ coscienza patriarcale” ci si distacca dal materno e si prova una sensazione di nostalgia delle origini. In questo stadio si prova il desiderio di tornare alla madre e si proiettano sul femminile qualità “ numinose” legate alla fecondità e capacità generative. È questo dunque il momento i cui la psiche invidiosa delle prerogative del materno può proiettare su di esso la carica aggressiva di cui è foriera l’invidia.
La klein fa una netta distinzione tra gelosia, invidia e bramosia.
La gelosia è un sentimento più complesso basato sulla rivalità edipica, sull’amore per l’oggetto e l’odio nei confronti del terzo;
La bramosia mira all’accaparrarsi tutto il bene e il buono dell’oggetto positivo, anche se in questo possedere si può danneggiare l’oggetto; ciò è naturalmente inconsapevole e involontario, il danno inferto dall’invidia, invece, è volontario poiché mira a svilire l’oggetto buono che è visto solo parzialmente e non ha a che fare con una relazione triangolare.
Svilire l’oggetto ha una valenza difensiva perché si devastano le qualità dell’oggetto invidiate. Distruggere e deturpare equivale dunque ad una manifestazione palese dell’invidia e ad una difesa contro la sofferenza di sapere di non poter possedere tali qualità.
Con questa identificazione proiettiva distruttiva torniamo a Jung se consideriamo quanto l’archetipo femminile, nel corso della storia delle religioni sia stato svilito e deturpato dalla coscienza maschile. Abbiamo visto infatti che con l’emergere di tale coscienza può insorgere l’invidia per le prerogative fecondatrici del femminile. Per questo motivo la coscienza che si irrigidisce in posizioni patriarcali proietta il male nel femminile come potenza assoluta di vita e di morte.
L’invidia in quest’ottica, nasce dunque dall’unilateralità della coscienza che rimuove l’anima (femminile).
Basti pensare a ciò che accadde alla prima moglie di Adamo: Lilith, che per non essersi completamente sottomessa all’uomo diventa madre dei demoni. Nella sua evoluzione assume varianti di tutte le Dee come le Lamie, le Arpie, le Erinni e poi le Streghe che non sono altro che frutto di un’identificazione proiettiva negativa della coscienza maschile nei confronti del femminile.
Quante donne con la corazza di Amazzoni, che si identificano nel principio maschile, sviliscono e devastano il loro lato più fragile e dipendente, la recettività accogliente di una femminilità che passa anche attraverso la cura e la grazia?
L’uomo o la donna che non vivano una dimensione di equilibrio tra femminile e maschile, che non compiano quel famoso ieròs gamòs tra questi due opposti vivono ovviamente nell’unilateralità, in una monodimensionalità che li farà vivere in base a concetti rigidi di femminile e maschile. A questo, necessariamente seguirà l’affetto di invidia e la necessità di svilire e depauperare quegli aspetti del femminile o maschile che in essi stessi non riescono ad essere espressi e vissuti. Inoltre quei lati della personalità che non riescono ad esprimersi, verranno ritenuti potenti e pericolosi e proiettati nell’altro in maniera persecutoria. Quante donne che non hanno sviluppato il loro lato “Afrodite”, che non riescono a vivere una sessualità appagante e un erotismo vivificante, sono le prime a scagliarsi contro altre donne ritenute di facili costumi o martorizzano le figlie adolescenti perché nel loro corpo che cambia vedono le tracce di una sessualità in fieri che ad esse è negata? Alla luce di quanto detto sopra può essere considerato il mito di Persefone che essendosi congiunta negli inferi e per l’eternità con Ade, suscita l’invidia della madre Demetra. Questa, non potendo più riportare a se la figlia, accetta il patto di doverla condividere.
Il mito narra che Persefone, figlia di Zeus e di Demetra, venne rapita da Ade , dio dell’oltretomba, che la portò negli inferi per sposarla ancora fanciulla contro la sua volontà. Lì le venne offerto del melograno, del quale ne mangiò solo sei semi. Persefone ignorava che chi mangia i frutti degli inferi è costretto a rimanervi per l’eternità. La madre, dea dell’agricoltura, reagì adirata al rapimento scatenando un inverno duro che sembrava non avere mai fine. Con l’intervento di Zeus si giunse ad un accordo con il quale si stabiliva che Persefone, sarebbe rimasta per sei mesi (come i sei semi del melograno) nell’oltretomba e altri sei mesi con la madre. Demetra allora accoglieva con gioia il periodico ritorno di Persefone sulla Terra, facendo rifiorire la natura nelle stagioni calde. Ma quando siamo in grado di vedere i nostri aspetti taciuti, quando siamo in grado di operare un’integrazione, attraverso lo specchio analitico, possiamo conoscerci e trasformarci e l’odio e l’invidia dovute all’ignoranza della non –conoscenza di sé, si trasformano in alleanza terapeutica. Alleanza che può ricostruire la prima, mancata, con l’oggetto d’amore e invidiato: con la madre, che è stata manchevole o è venuta a decadere. Scrive Cesare Pavese: “ si odia ciò che si teme, ciò quindi che si può essere, che si sente di essere un poco. Si odia se stessi. Le qualità più interessanti e fertili di ciascuno sono quelle che ciascuno più odia in sé e negli altri. Perché nell’odio c’è tutto. Amore, invidia, ignoranza, mistero e ansia di conoscere e possedere” ( 1935-50, pg.119). Talvolta l’invidia può permeare il setting analitico ed essere proiettata sull’analista visto come detentore di sapere, di nutrimento per l’anima quindi invidiato come il seno primordiale, ma se si riesce a ricomporre questa capacità primaria di alleanza e se si permette la libera circolazione del sapere, l’analista può condurre l’analizzando in una dimensione in cui all’invidia nei confronti del numinoso subentra il riconoscimento in sé del numinoso stesso. Il lattante infondo, tramite i richiami nei confronti della madre non fa altro che cercare questa iniziale e fondamentale alleanza ma se esso sperimenterà la madre come altro da sé, la vivrà come fonte minacciosa di depauperazione. Quando invece le caratteristiche positive della madre verranno introiettate grazie ad una buona alleanza, si creerà l’unione e la base anche per un sano erotismo e amore. L’oggetto non dovrà essere sminuito ma sarà veicolo per la solidificazione di un legame che sì, nasce da mancanze ,ma da mancanze che possono essere integrate in una sana coniuctio oppositorum.
Scrive Jung: “ Apparentemente la madre possiede la libido del figlio (il tesoro che essa custodisce così gelosamente) e, in realtà, è così, fintanto che il figlio rimane inconsapevole di se stesso” (Jung,1952; pg.254).
Cos’è che s’invidia della madre se non questo tesoro cui allude Jung?
Il concetto di invidia del pene è affrontato anche da Adler che lo rielabora alla luce del complesso di inferiorità. Come sappiamo, per questo autore, tutta la nostra vita psicologica prende le mosse da un senso di debolezza organica in quanto, noi esseri umani, siamo inferiori e deboli per natura. Secondo Hillmann (1983; pg.131-132) “ …Però non dobbiamo prendere troppo alla lettera e quindi in modo troppo restrittivo il lucus dell’organo e neppure il sentimento di inferiorità. Con ciò Adler intendeva anche quelle caratteristiche estreme di ogni tipo, ivi compresa la grande bellezza. Tuttavia la vita dell’anima deriva da un sentimento di singolare inferiorità…che è localizzato in un’unica essenziale immagine organica, sicchè quel locus diventa una pars pro toto della creaturale inferiorità in genere….Noi cresciamo intorno ai nostri punti deboli , a partire da essi viviamo. E dunque , ogni fantasia di cura che perda questo senso di inferiorità organica, la sua particolare localizzazione in un’immagine corporea, perde anche , se si segue Adler fino in fondo, il senso stesso che è proprio dell’anima”. Dunque il comportamento sessuale per Adler assume un carattere simbolico, in opposizione con il carnalismo Freudiano e il concetto di invidia del pene viene letto più ampiamente come invidia per il maschile.
Scrive Carotenuto: “ Il simbolismo sessuale dell’invidia penis deve quindi essere spogliato del letteralismo e collocato in un contesto culturale in cui il potere è detenuto dal patriarcato.” ( carotenuto1995; pg.316 e seg). L’invidia della donna non è dunque invidia per un’inferiorità organica ma la mancanza anatomica diventa metafora, come lo è il seno, di una mancanza più ampia, di un senso di esclusione dai privilegi del mondo maschile. A mio avviso si potrebbe intendere anche invidia per l’esclusione del maschile psicologico ovvero per la mancata integrazione psicologica del maschile nella donna.
Abbiamo visto come l’invidia sia ritenuta un meccanismo di difesa ( identificazione proiettiva). Bion sviluppa questo concetto affermando che l’invidia è una forma di identificazione proiettiva anormale poiché con questo meccanismo si entra nell’altro attaccandolo e sminuendolo; secondo questo autore con l’identificazione proiettiva normale invece , si entra nell’altro secondo modalità empatiche. Quindi l’identificazione proiettiva è un modo di superare in qualche modo il divario tra sé e l’altro, una modalità difensiva contro il primigenio senso di separazione dal materno.
Se , come abbiamo visto, l’invidia deriva dalle prerogative creative della madre e del maschile, che come fallo fertilizza e rende possibile la fecondazione, vediamo allora che gli attacchi invidiosi sono tutti mirati ad un unico concetto: la creatività. Per questo motivo, forse, Clitennestra disse: “Se tu sei grande, lo sei perché non hai paura dell’invidia” infatti, tutte le persone generative e creative, che sviluppano queste facoltà nella loro vita, sono estremamente vittime di attacchi invidiosi. L’invidia , come scrive Carotenuto (op. cit; pg.598) è “la grande antagonista della creatività”. Sono questi attacchi invidiosi e distruttivi quelli che vengono dal mostro che sovente l’eroe, colui che non teme l’invidia, deve affrontare. L’eroe è metafora dell’essere umano che tende al recupero della creatività primaria, alla coniuctio oppositorum e alla realizzazione creativa. Tornare alla madre , tanto invidiata e attaccata, vuol dire allora tornare alle fonti della capacità creativa, meta dell’individuazione. I Greci parlavano dell’invidia degli dei, riferendosi agli eventi dolorosi che devono affrontare le persone creative, gli eroi, coloro che percorrono una strada unica e individuale nell’esistenza. Anche in questo caso vediamo come l’invidia è un attacco riferito all’autonomia, alla creatività dell’individuo. Scrive Carotenuto “La storia è costellata di questi drammi, di persone eccezionali che per poter esprimere le loro idee si sono dovute scontrare con l’invidia altrui e con la solitudine”. Riappropriarsi di quella creatività primigenia, infatti, vuol dire possedere quella numinisità e nutritività proprie del seno tanto invidiato arcaicamente.
Jung, non ha mai ampliato e parlato direttamente del concetto di invidia, ma se abbiamo recepito profondamente il suo messaggio, ci rendiamo conto di quanto l’invidia sia un sentimento derivante dall’incapacità di attingere alle fonti sorgive della creatività e della realizzazione. Sappiamo che la meta dell’uomo è l’integrazione e l’ individuazione: una psiche parcellizzata che non attinga alla fecondità della creazione e del centro della personalità, allorchè rimosso e attaccato, porterà necessariamente all’invidia. Questa, con i suoi attacchi mortiferi, impedisce il riconoscimento di un seno interiore , tondo e rassicurante come i mandala, da Jung ampiamente analizzati che non sono altro che simboli della circolarità del Sé e del seno, come fonte di creatività e nutrimento interiore.
Bibliografia
Adler “Psicologia del bambino difficile” 1930;
trad.it. Newton Compton Roma 1975
Aldo Carotenuto ” Trattato di psicologia della
personalità” 1995 Raffaello Cortina Editore
Ellemberger “La scoperta dell’inconscio” Vol.I Bollati
Boringhieri 1976
Hanna Segal “Melanine Klein” 1979; trad.it. Bollati
Boringhieri, Torino 1981
Hillman “Intervista su amore, anima e psiche” 1983;
trad.it.Laterza, Bari
Jung, “Risposta a Giobbe” 1952; trad.it. in Opere
vol.9 Boringhieri , Torino 1979
Melanine Klein “invidia e gratitudine” 1957, trad.it.
Martinelli, Firenze 1969
Melanine Klein ” Lo sviluppo di un bambino” 1921;
trad.it in Id., “Scritti 1921-1959”, Boringhieri,
Torino, 1978
Neumann “Storia delle origini della coscienza” 1949;
trad.it. Astrolabio, Roma 1978