Carlo contro la potente famiglia tedesca di produttori di materassi. Un pezzo bellissimo tratto da “Cronache berlinesi ” di Giancarlo Rossi

Surrealismo allo stato brado.

Sarà capitato a tutti di avere dei nemici potenti; in questo momento storico mi capita di essere sotto la mira di un rampollo di una delle più ricche famiglie d’Europa.

Gli Hartmann, i più grandi produttori ed esportatori di materassi del continente.

Che la professione di materassaio possa celare subdole incognite, ce lo dimostra la storia di Licio Gelli, non di meno in questa particolare situazione, occorre specificare che a me, purtroppo, non capita di avere a che fare con un venerabile maestro di un qualche ordine massonico, bensì con un fulminato dedito al metadone, e ai cattivi pensieri.

Sono da poco uscito dal commissariato di Neukoelln, nel quale ero entrato per rispondere all’accusa di lesioni personali; sebbene non fossi sicuro di chi potesse avermi denunciato, un’ideuzza ce l’avevo, e il mio intuito non mi inganna mai.

Del resto anche il rampollo in questione, con le sue attività, mi agevola la comprensione degli eventi, avendomi nell’ultimo anno già denunciato per furto, e associazione a delinquere.

Nella fattispecie mi accusava di averlo spinto, e di avergli leggermente storto un pollice, cosa che veramente farebbe ridere, se dietro di essa non si celasse un dramma, una condizione deprecabile dell’essere, una sconfitta per tutta l’umanità.

Il giovane infatti (oddio tanto giovane non è, avrà tipo 50 anni, ma nella mente… ah la mente…) mi accusa di averlo cacciato da casa mia, dopo essermelo ritrovato nella mia amaca una notte di luglio dell’anno scorso, dopo essere rincasato, la qual cosa è vera.

Non so se abbiate mai provato l’ineguagliabile sensazione di rientrare in casa e trovarci qualcuno dentro, non invitato.

È una specie di spavento, anche se si trattta di qualcuno di conosciuto.

Anzi a ben vedere, fa molto più spavento trovarsi in casa in questo modo un conoscente, piuttosto di un perfetto estraneo.

Ora bisogna dire che non sono nuovo a questo tipo di avventure; un po’ per la mia natura informale, un po’ perché sono povero in canna, vivo con la porta del mio balcone al pianterreno costantemente aperta, e già un paio di volte mi è capitato al risveglio di trovarci persone che non sapevo ci fossero, ma che ci si vuol fare, a me vivere rinchiuso non piace.

Il signor Hartmann era una persona che consideravo nella cerchia delle mie frequentazioni; direi un amico, perché per me amico significa chiunque che, anche se nella merda, non userebbe mai il suo malessere per nuocere a te; qualche bevuta e qualche bel concerto insieme ce li siamo pure fatti, e spesso la sua maniera di fare mi aveva animato a promettergli di gettarlo nel canale, e sono quelle cose che si dicono quando non si ha intenzione di metterle in pratica, poiché sarebbe controproducente avvertire d’antemano la vittima designata al proposito.

Essendo stato allontanato dalla sua stessa famiglia per i suoi comportamenti, purché rinunci a occuparsi degli affari di famiglia, gli viene corrisposta la somma di 2500 euro netti al mese, ma non è raro trovarlo spiantato a metà mese, esattamente come me che vivo con 404 euro netti al mese, e qua si aprono vaste praterie per considerare la realtà del valore del denaro, ma non è questo il momento, altrimenti non finisco più.

Fatto sta che tutte le lesioni che secondo lui gli ho provocato constano di una spinta, e di una leggera torsione del pollice, mentre lo buttavo fuori di casa, dopo che vi si era introdotto a mia insaputa.

Il poliziotto stesso era incredulo; ho dovuto fargli notare che erano presunti fatti risalenti a un anno e mezzo fa; nella sua ingenuità di poliziotto era convinto si parlasse di fatti di questa estate.

Eh eh ehe, non conosce Bobby Hartmann!

Quello è capace di risalire i fiumi del tempo e arrivare al Neolitico, se qualcosa gli suona storto.

Ebbene dopo un’ora di interrogatorio, mentre mi il poliziotto congedava, gli ho chiesto direttamente che cosa stessi rischiando con una denuncia del genere.

Francamente, mi ha risposto, un bel niente.

Il signor Hartmann ha esposto nell’ultimo periodo un tal numero di denunce, che persino la polizia non lo può più prendere sul serio.

E questo, se ci si pensa è fondamentalmente tragico.

Maledetta empatia che riesce a farmi soffrire anche quando si tratta di persone che mi vogliono fare del male!

Come se tutto questo non fosse sufficiente appena uscito dalla stazione di polizia mi sono recato al supermercato per annegare la mia sofferenza nell’alcool, e sulla porta chi ci trovo?

Micole, una donna che avevamo dato per morta nella cerchia di alcolizzati del parco, della quale lei ne fa parte ,e per la quale avevo scritto poco tempo fa un commovente necrologio.

La vedo lì, viva e vegeta, e mi sono avvicinato per sincerarmi che non fosse un’apparazione medianica, sapete sono un po’ un medio, un persa, un ittita.

Ha risposto molto sospettosamente alle mie domande per accertarmi che non fosse morta davvero, mi ha salutato e se ne è andata.

Noi diamo la colpa all’alcol e alle droghe, ma mentiamo sapendo di mentire.

E pensare che le avevamo fatto un così sentito trauerfeier, e c’era scappata anche una lacrima furtiva.

“Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo” di Erich Neumann

Cosa accade a Psiche, che spinta dalle forze matriarcali ostili all’uomo si avvicina al letto munita di lampada e coltello per uccidere il presunto mostro, e che adesso riconosce essere Eros? …. Si tratta del risveglio di Psiche in quanto psiche, del fatale momento in cui la donna emerge per la prima volta dalle tenebre del suo inconscio e dalla severità del vincolo matriarcale e, incontrando l’uomo individual- mente, ama, cioè riconosce Eros…
La Psiche che si avvicina al giaciglio di Eros non è più la creatura languidamente irretita e stordita dal piacere che vive nell’oscuro paradiso del sesso e del desiderio; risvegliata dall’irruzione delle sorelle, Psiche diventa consapevole del pericolo in cui si trova, ed è ora con tutto lo spietato spirito del matriarcato che va a uccidere il mostro, l’uomo-belva che con queste nozze di morte l’ha strappata alla terra e l’ha rapita nelle tenebre. Ma al chiarore della luce nuovamente accesa, con la quale illumina l’inconscia oscurità della sua precedente esistenza, riconosce Eros. Psiche ama…
La Psiche che scopre il vero aspetto di Eros e infrange il tabù della sua invisibilità, non sta più di fronte al maschile come la vecchia Psiche ingenua e infantile, ma non è neanche soltanto afferrante e afferrata; essa è invece così mutata nella sua nuova femminilità, che perde il suo amante, anzi lo deve perdere In questa situazione amorosa di una femminilità che diventa cosciente attraverso l’incontro e il confronto, conoscenza, sofferenza e sacrificio costituiscono un’identità…
L’azione di Psiche provoca così tutte le sofferenze legate all’individuazione, nelle quali una persona ha esperienza di se stessa di fronte a un partner che è altro da lei e non soltanto a lei connesso. Psiche ferisce se stessa e ferisce Eros, e le loro simili ferite decretano la dissoluzione della loro originaria unione inconscia. Ma solo grazie a questo doppio ferimento sorge l’amore, il cui senso sta nell’unire nuovamente ciò che è stato separato; solo grazie ad esso sorge la possibilità di un incontro, condizione dell’amore tra due individualità…

(tratto da Erich Neumann, “Amore e Psiche. Un’interpretazione nella psicologia del profondo”, traduzione di Vittorio Tamaro, Astrolabio editore.)

Degno e decenza nello spazio amoroso

badboy

Degno: dal latino DIGNES, stessa radice di De-coro e De-cente.
Chi assume in sé la proprietà della decenza può accedere alla presenza: non è osceno ( fuori dalla scena).
Nella nostra epifania nell’Altro la decenza del nostro essere è strettamente legata alla possibilità, nell’impossibile soverchiante dell’alterità totale dell’esistenza, di avere De-coro.
Questo decorarci è una forma estetica dell’anima, è l’ananke, la necessità di abbellirci dell’eventualità di una presenza. Nelle sue estreme conseguenze il mio esserci dinanzi a te è possibile nella misura in cui io sono decorato dalla mia dignità. Solo in questo caso mi è concesso di essere degno di presenza. Solo in questo senso è decente che io mi mostri.
La dignità concede l’udibilità. Se davvero l’origine del mondo è nella fonè, allora io sono riconoscibile ed udibile se il mio narrato ha una sostanza autonoma, solo se esisto per me stesso e non relato e quindi solo se sono integro e distinto. Questo ci conduce alla seconda possibile radice del verbo DIGNES : DI-CERE (dire ); Do-cere (mostrare). Sono degno di essere udibile per l’altro e nello spazio della relazione quando la mia fonazione è distinguibile dal rumore di fondo, questo emergere dal fondo è possibile nella mia dignità di essere uno, solo allora mi è concessa una narrazione, perché mi storicizzo.
Posso dirmi, se posso essere degno di mostrarmi. E qui subentra il tema della vergogna e della colpa. Perché se io sono nel magma del basso, nell’indifferenziato dell’indegnità, se appunto non sono integro e decente, come posso mostrarmi e dirmi? Come posso denudarmi ed apparire se sono osceno, fuori dalla scena? La scena primaria e rispettabile della rappresentazione amorosa è il teatro elettivo della dignità dell’uomo come essere narrante ed esposto. Non v’è indegnità maggiore di quella di apparire nello spazio terzo della relazione privo di unicità e vivente nel rifiuto. Perché per sua natura l’amore è territorio di rarità ed eccezione ed è accoglimento. È quando sono voluto in quanto accolto che la mia voce non si fa eco ma diventa udibile e condivisibile e persino coro, corona, rotondità della fusione. Ed è lì e solo lì che il mio narrato si fa doppio ed emerge persino la possibilità di non esistere: di perdersi nell’altro e con l’altro nell’estremo riconoscimento. Posso diventare silenzio pregnate , posso restare muto solo dinanzi all’immensità del fare sacro che è l’abdicazione dell’ego in nome della sua ulteriorizzazione. Nel due. E posso ulteriorizzarmi nel silenzio udibile solo se prima ne sono stato degno.
Solo se l’uno ha riconosciuto l’uno e si è creato il terzo.
C’è un momento in cui si tace. Esso è l’istante in cui sopravviene la perdita della ragione in nome dell’emersione della comprensione. La comprensione non è mai detta. È un atto e come ogni atto non ha intenzionalità se non nel momento esatto e forse anche inconscio in cui sopravviene.
L’eccezionale accade per sbaglio. È un regalo fattoci a caso di cui bisogna essere degni. La rarità della dignità prevede la riconoscibilità. Devo potermi riconoscere, essere riconosciuto, poter riconoscere il raro e superare la prova di essere DEGNO di sostenere la rarità.
Se la vergogna di non essere unico , di non essere narrabile perché io stesso non vorrei o potrei udirmi in quanto non esisto, prende il sopravvento, solo boicottare la prova di resistenza alla rararità può darmi sollievo. Perché sono schiacciato dalla colpa dell’insostenibilità e dalla vergogna di non esistere.
Come posso espormi alla dignità di un sentimento e alla condivisione se non ho sostanza ?
Eppure non c’è un’eternità transeunte più immaginabile del momento amoroso.
Eppure non c’è un altro spazio possibile in cui ci sia la sazietà del primo ed ultimo riconoscimento. Nel momento amoroso c’è la madre e il parto, la piccola morte dell’io e lo sconvolgimento dell’esserCi e non essere presenti allo stesso tempo.
C’è quella stessa dipendenza dall’utero partoriente e inglobante. Quella stessa commistione di eros e thanathos. Ed è l’unica possibilità appagante di riscatto dal non esistere. Il suo contrario è disperazione.
È dunque forse nella colpa dell’indegnità che la vergogna di avere una voce indecente è un passaggio obbligato per poter esserci nella cosa amorosa? Questo lo ignoro, ma forse non c’è altro modo di manifestarsi se non quello di correre il rischio di non esserne degni, di non essere degni di riconoscimento.
E accogliere l’oscenità del nostro non essere decorosi è un’azione indissolubilmente legata alla nostra volontà o necessità o alla ineluttabilità della nostra presenza.
L’esistere stesso è esporsi al non essere udibili, l’unica consolazione è la possibilità di concederci quell’atto rischioso di sostenerne la vergogna.

A complemento di questo articolo ho scelto l’immagine di un quadro di Eric Fischl: Bad Boy, del 198. Fischl è un artista americano che racconta una realtà scomoda del sottobosco suburbano. Si è molto addentrato nel tema dell’esposizione e del voyerismo, come in questo quadro, dove ci sembra che un adolescente posi il suo sgardo concupiscente sulla nudità di una prostituta.
Mi sembra che questa immagine possa disturbarci, sia indecorosa. E che questa indecorosità e indegnità dello scoprirsi, del mostrarsi e del guardare in un contesto osceno, rappresenti bene il momento esatto in cui un’anima si svela ad un’altra nella sua ontologica indegnità e vergogna. Nella debolezza e rischiosità del contesto amoroso si rischia spesso di avere tutto da perdere quando ci distendendiamo per mostrarci: si rischia anche che l’altro ci guardi in piedi, senza toccarci. Ma lo svelarsi, se non è un regalarsi non è mai propriamente indecente, è un atto di coraggio.

 

LIVING THEATRE #teatro #sperimentazione #rivoluzione

Albertomassazza's Blog

living theatre Nell’immediato dopoguerra, a New York, Julian Beck e Judith Malina, una coppia di aspiranti artisti poco più che ventenni con qualche migliaia di dollari a disposizione, si erano messi in testa di intraprendere una carriera teatrale. Nonostante gli imput provenienti dagli ambienti dell’avanguardia newyorkese gravitanti attorno alla figura di John Cage, i due giovani non intendevano creare un teatro sperimentale, quanto intraprendere un percorso tradizionale che avrebbe dovuto avere, come sbocco naturale, Broadway. Ben presto, la coppia si rese conto delle difficoltà di una simile impresa, tra burocrazia da rispettare e necessità di crearsi un pubblico, senza esperienza e preparazione adeguate. Così, decisero di riporre le ambizioni ufficiali, per rivolgersi alla ricerca di forme teatrali innovative. Sempre alle prese con le autorità preposte al rispetto delle rigorose norme di sicurezza dei locali adibiti allo spettacolo e per questo costretti a cambiare sovente la sede, i due, ormai divenuti Living Theatre…

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NO OMOFOBIA : IL TESTO DELLA LETTERA DI OSCAR WILDE DAL CARCERE

 

Questo è il testo della lettera scritta da Oscar Wilde il 29 aprile 1895 dal carcere di Holloway a Lord Alfred Douglas:
 
 
“Mio carissimo ragazzo,
questo è per assicurarti del mio amore immortale,
eterno per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e
il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore
per te e questa idea, questa convinzione ancora più divina,
che tu a tua volta mi ami, mi sosterranno nella mia infelici-
tà e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio
dolore con ogni pazienza. Poiché la speranza, anzi, la cer-
tezza, di incontrarti di nuovo in un altro mondo è la meta
e l’ incoraggiamento della mia vita attuale, ah! debbo con-
tinuare a vivere in questo mondo, per questa ragione.
Il caro *** mi è venuto a trovare oggi. Gli ho dato
parecchi messaggi per te. Mi ha detto una cosa che mi
rassicurato: che a mia madre non mancherà mia niente.
H sempre provveduto io al suo mantenimento, e il pensiero
che avrebbe potuto soffrire delle privazioni mi rendeva
infelice.
Quanto a te (grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo),
quanto a te, ti prego, non appena avrai fatto
tutto quello che puoi fare, parti per l’Italia e riconquista
la tua calma, e componi quelle belle poesie che sai fare tu,
con quella grazia così strana.
Non esporti all’Inghilterra per nessuna ragione al mondo.
Se un giorno, a Corfù o inqualche isola incantata,
ci fosse una casetta dove potessimo vivere insieme, oh! la vita
sarebbe più dolce di quanto sia stata mai. Il tuo amore ha ali larghe
ed è forte, il tuo amore mi giunge attraverso le sbarre della mia prigione
e mi conforta, il tuo amore è la luce di tutte le mie ore. Se
il fato ci sarà avverso, coloro che non sanno cos’è l’amore
scriveranno, lo so, che ho avuto una cattiva influenza sulla
tua vita. Se ciò avverrà, tu scriverai, tu dirai a tua volta
che non è vero. Il nostro amore è sempre stato bello e
nobile, e se io sono stato il bersaglio di una terribile tra-
gedia, è perchè la natura di quell’ amore non è stata com-
presa. Nella tua lettera di stamattina tu dici una cosa che
mi dà coraggio. Debbo ricordarla. Scrivi che è mio dovere
verso di te e verso me stesso vivere, malgrado tutto. Cre-
do sia vero. Ci proverò e lo farò. Voglio che tu tenga
informato Mr Humphreys dei tuoi spostamenti così che
quando viene mi possa dire cosa fai. Credo che gli avvoca-
ti possano vedere i detenuti con una certa frequenza. Così
potrò comunicare con te.
Sono così felice che tu sia partito! So cosa deve esserti
costato. Per me sarebbe stato un tormento pensarti in In-
ghilterra mentre il tuo nome veniva fatto in tribunale.
Spero tu abbia copie di tutti i miei libri. I miei sono
stati tutti venduti. Tendo le mani verso di te. Oh! possa
io vivere per toccare i tuoi capelli e le tue mani. Credo che
il tuo amore veglierà sulla mia vita. Se dovessi morire,
voglio che tu viva una vita dolce e pacifica in qualche
luogo fra fiori, quadri, libri, e moltissimo lavoro. Cerca di
farmi avere tue notizie. Ti scrivo questa lettera in mezzo
a grandi sofferenze ; la lunga giornata in tribunale
mi ha spossato. Carissimo ragazzo, dolcissimo fra tutti
i giovani, amatissimo e più amabile. Oh! aspettami!
aspettami! io sono ora, come sempre dal giorno in cui ci siamo conosciuti,
devotamente il tuo, con un amore immortale”

Perché più forte della morte è l’amore (l’imperatore Adriano e Antinoo, il fascino della bellezza )

Perché più forte della morte è l’amore

l’imperatore Adriano e Antinoo, il fascino della bellezza

 

Originariamente pubblicato su : http://www.unonove.org/perche-piu-forte-della-morte-e-l’amore/

di Barbara Collevecchio 

“ERIGERÒ UNA STATUA CHE SARÀ
NEL FUTURO PROVA INCESSANTE DEL MIO AMORE. 
DELLA TUA BELLEZZA E DEL SENSO CHE LA BELLEZZA DÀ DEL DIVINO. 
BENCHÉ LA MORTE  CON SCARNE MANI 
SPOGLI DEI PARAMENTI LA  VITA 
E DELL’IMPERO IL NOSTRO AMORE.
LA SUA NUDA STATUA, ABITATATA DAL TUO SPIRITO 
TUTTE LE ERE FUTURE, CHE LO VOGLIANO O MENO 
COME UN REGALO PORTATO DA UN DIO CHE IMPONE,
INEVITABILMENTE EREDITERANNO” 
( FERNANDO PESSOA, ANTINOO, 1918 ) 
 
A Villa Adriana è in corso la mostra dal titolo: Antinoo, il fascino della bellezza, catalogo Electa. 
 
Per la prima volta la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio inaugura nell’Antiquarium di Villa Adriana una mostra dedicata ad Antinoo. Il forte legame che legò l’imperatore Adriano al giovane di Bitinia è raccontato da oltre 50 opere tra sculture, rilievi, gemme e monete. 
“La prima sezione riunisce una serie di ritratti di Adriano e di Antinoo, tra cui il busto di marmo dei Musei Vaticani e il bellissimo bronzo conservato al Museo Archeologico di Firenze. La seconda sezione si incentra sulla deificazione del giovane bitinio, di volta in volta rappresentato nei panni di Apollo, Dioniso, o, ancora, come sacerdote di Attis. La terza sezione si incentra sulle recenti scoperte dall’Antinoeion di Villa Adriana e, quindi, sulla rappresentazione di Antinoo nelle vesti di Osiride. Adriano aveva deificato il suo favorito con l’assimilazione alla più alta divinità egizia che, secondo il mito, rinasce dalle acque del Nilo, simbolo di fertilità. In mostra si ammira lo splendido ritratto di Antinoo-Osiride in quarzite rossa grazie al prestito dalle Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. L’ultima sezione si focalizza sulla fortuna di Antinoo attraverso i secoli. Tra i prestiti concessi si potrà ammirare anche uno dei preziosi volumi del “Viaggio pittorico di Villa Adriana” di Agostino Penna del 1831 – 36, che contiene un bellissimo ritratto di Antinoo, oggi conservato presso i Musei Vaticani, nella Sala della Rotonda”.

 

Orari di ingresso dell’area archeologica:
tutti i giorni, sia feriali che festivi, dalle 9.00 a un’ora e mezzo prima del tramonto
 

Antinoo, Giovane bitino amato dal grande imperatore Adriano. 
Il giovane Antinoo arrivò a Roma intorno al 125 d.C. al seguito di Adriano che lo aveva conosciuto probabilmente nel 123, durante una sosta del suo lungo viaggio entro i confini dell’Impero, durato due anni. Il favorito di Adriano restò al fianco dell’imperatore, seguendolo anche nei viaggi ufficiali, come quello intrapreso nel 128 che si concluderà tragicamente con la morte del giovane Antinoo nel 130 d.C.. Sappiamo dalle fonti antiche, che specularono sulla vicenda alludendo a una dinamica poco chiara degli eventi, che durante la spedizione, risalendo il corso del Nilo, Antinoo annegò misteriosamente nel fiume e Adriano, profondamente colpito dal dolore della perdita, fondò la città di Antinoopoli nei pressi del luogo dove era avvenuta la tragedia e dichiarò giorno festivo il 27 novembre, data di nascita di Antinoo. Il giovane bitino venne divinizzato dai sacerdoti egizi e rappresentato come Osiride, la massima divinità religiosa cui erano assimilati i faraoni. Di ritorno dall’Egitto dopo il 133, Adriano progettò di onorare a Villa Adriana l’amasio perduto con un grande edificio absidato, in cui è stato riconosciuto un Antinoeion, collocato lungo l’ingresso monumentale che conduceva al Vestibolo.
Sin da allora la memoria di Antinoo è stata alimentata in modo tale da attraversare indenne i secoli e l’effigie del giovinetto è stata utilizzata per ritratti in marmo. Ai giorni nostri, l’opera che ha contribuito al più vasto impulso della fama di Antinoo è senza alcun dubbio il romanzo “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, che scrive: “Nelle ore di insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala (…) mi fermavo davanti ai simulacri di Antinoo. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra.”
 
Adriano il colto, il raffinato, l’ellenista, l’imperatore romano che pianse “come una femmina” alla morte del suo giovane amante. L’amore è più forte della morte. L’amore è quell’atto sovversivo, quel sentimento che ci fa capire l’etimo della parola  emozione: da moveo, qualcosa che ci muove.
Che l’amore sia sovversivo lo sapevano bene i surrealisti e André Breton quando crearono la locuzione Amour fou:  solo il rapporto d’amore può sovvertire la banalità del medio vivere, farci sentire vivi, mossi da un dio crudele che ci erotizza l’esistenza. 
L’amore è quel dio che ci sconquassa le ossa, scarnifica il petto, ossessiona la mente, impadronendosi della ragione, delle fibre, dei muscoli pelvici e cerebrali. 
Un imperatore folgorato dalla bellezza, Adriano, che nella bellezza di un corpo, di un’anima, vedeva la presenza di Dio. 
“Mi appare simile ad un Dio colui che mi siede accanto” scriveva Saffo, poetessa greca.  
“…e la lingua mi si spezza”, e non riesco a proferir parola, davanti alla potenza disarmante, sublime, estatica del bello che si presenta sotto forma di seduzione massima, del totale straniamento di sé e appartenenza all’altro, al totalmente Altro. 
L’amore non è per bene, non è per chi, comodo nella sua dimora psichica, non vuol essere turbato. È l’eccezione l’amore, quella cosa senza nome che regna nell’omphalos sacro, nel temenos degli dèi, nel bacino dissacrato dalla violenza della passione. 
Passione, da patior: come posso non soffrirti se ti amo? Come posso non dire che s’offro? Soffro e mi offro all’altare delle nostre proiezioni, sono uno ma doppio, sfumato, reso cangiante dalla tua visione di me , dalla mia visione di te. 
Sacrificio, fare sacro: morire all’uno che ci divide e fare due, diventare terzi, spazio Altro in cui tessere la tela di ciò che vorremmo essere, di ciò che vorrei offrirti, di immenso, di inenarrabile… tutto quello che covava in me prima di incontrarti.
L’incontro: straniamento, ossessione del cercarsi, riconoscimento. Come se dall’utero materno io fossi stato condotto a te, Amore. Amore che mi guardi, che mi riconosci nello specchio di quello che avrei sempre voluto dire al mondo. Ma con te taccio. Gli occhi ci grondano verità inaudite. Le mani, i capelli,  i nostri piedi nella notte, avvinghiati come alberi che vogliono mettere radici nel letto.
L’assoluto: la complicità. Sei il mio tempio, l’altare sacro in cui contemplo la nostra bellezza, il nostro dirci ad un mondo invidioso, che non è pronto, non è adatto all’amore.
La perdita: come schegge d’eternità, per sbaglio piombati nel mondo abbiamo tentato, Amore, di mettere le radici nella verità, di trattenere quell’attimo infinito di presente che ci ha resi eterni, non più finiti, ma immensi.
E l’Amore, totalità della bellezza fatta carne ed anima non l’abbiamo trattenuto, umani nel disumano abbiamo fatto quello che potevamo. 
Ma più forte della morte è l’amore, più forte di ogni rimprovero, di ogni simulacro, di ogni sconfitta, di ogni umana caduta. 
L’amore sta. Come la statua di Antinoo, il giovane amante di Adriano, Adriano l’imperatore di Roma, che “pianse come una femmina” quando il suo amore morì. E lo rese divino. 

La bellezza salverà il mondo

Immagine

ERIGERO’ UNA STATUA CHE SARA’

NEL FUTURO PROVA INCESSANTE DEL MIO AMORE.

DELLA TUA BELLEZZA E DEL SENSO CHE LA BELLEZZA DA’ DEL DIVINO.

BENCHE’ LA MORTE  CON SCARNE MANI

SPOGLI DEI PARAMENTI LA  VITA

E DELL’IMPERO IL NOSTRO AMORE .

LA SUA NUDA STATUA, ABITATATA DAL TUO SPIRITO

TUTTE LE ERE FUTURE , CHE LO VOGLIANO O MENO

COME UN REGALO PORTATO DA UN DIO CHE IMPONE ,

INEVITABILMENTE EREDITERANNO

( FERNANDO PESSOA, ANTINOO, 1918 )