
Degno: dal latino DIGNES, stessa radice di De-coro e De-cente.
Chi assume in sé la proprietà della decenza può accedere alla presenza: non è osceno ( fuori dalla scena).
Nella nostra epifania nell’Altro la decenza del nostro essere è strettamente legata alla possibilità, nell’impossibile soverchiante dell’alterità totale dell’esistenza, di avere De-coro.
Questo decorarci è una forma estetica dell’anima, è l’ananke, la necessità di abbellirci dell’eventualità di una presenza. Nelle sue estreme conseguenze il mio esserci dinanzi a te è possibile nella misura in cui io sono decorato dalla mia dignità. Solo in questo caso mi è concesso di essere degno di presenza. Solo in questo senso è decente che io mi mostri.
La dignità concede l’udibilità. Se davvero l’origine del mondo è nella fonè, allora io sono riconoscibile ed udibile se il mio narrato ha una sostanza autonoma, solo se esisto per me stesso e non relato e quindi solo se sono integro e distinto. Questo ci conduce alla seconda possibile radice del verbo DIGNES : DI-CERE (dire ); Do-cere (mostrare). Sono degno di essere udibile per l’altro e nello spazio della relazione quando la mia fonazione è distinguibile dal rumore di fondo, questo emergere dal fondo è possibile nella mia dignità di essere uno, solo allora mi è concessa una narrazione, perché mi storicizzo.
Posso dirmi, se posso essere degno di mostrarmi. E qui subentra il tema della vergogna e della colpa. Perché se io sono nel magma del basso, nell’indifferenziato dell’indegnità, se appunto non sono integro e decente, come posso mostrarmi e dirmi? Come posso denudarmi ed apparire se sono osceno, fuori dalla scena? La scena primaria e rispettabile della rappresentazione amorosa è il teatro elettivo della dignità dell’uomo come essere narrante ed esposto. Non v’è indegnità maggiore di quella di apparire nello spazio terzo della relazione privo di unicità e vivente nel rifiuto. Perché per sua natura l’amore è territorio di rarità ed eccezione ed è accoglimento. È quando sono voluto in quanto accolto che la mia voce non si fa eco ma diventa udibile e condivisibile e persino coro, corona, rotondità della fusione. Ed è lì e solo lì che il mio narrato si fa doppio ed emerge persino la possibilità di non esistere: di perdersi nell’altro e con l’altro nell’estremo riconoscimento. Posso diventare silenzio pregnate , posso restare muto solo dinanzi all’immensità del fare sacro che è l’abdicazione dell’ego in nome della sua ulteriorizzazione. Nel due. E posso ulteriorizzarmi nel silenzio udibile solo se prima ne sono stato degno.
Solo se l’uno ha riconosciuto l’uno e si è creato il terzo.
C’è un momento in cui si tace. Esso è l’istante in cui sopravviene la perdita della ragione in nome dell’emersione della comprensione. La comprensione non è mai detta. È un atto e come ogni atto non ha intenzionalità se non nel momento esatto e forse anche inconscio in cui sopravviene.
L’eccezionale accade per sbaglio. È un regalo fattoci a caso di cui bisogna essere degni. La rarità della dignità prevede la riconoscibilità. Devo potermi riconoscere, essere riconosciuto, poter riconoscere il raro e superare la prova di essere DEGNO di sostenere la rarità.
Se la vergogna di non essere unico , di non essere narrabile perché io stesso non vorrei o potrei udirmi in quanto non esisto, prende il sopravvento, solo boicottare la prova di resistenza alla rararità può darmi sollievo. Perché sono schiacciato dalla colpa dell’insostenibilità e dalla vergogna di non esistere.
Come posso espormi alla dignità di un sentimento e alla condivisione se non ho sostanza ?
Eppure non c’è un’eternità transeunte più immaginabile del momento amoroso.
Eppure non c’è un altro spazio possibile in cui ci sia la sazietà del primo ed ultimo riconoscimento. Nel momento amoroso c’è la madre e il parto, la piccola morte dell’io e lo sconvolgimento dell’esserCi e non essere presenti allo stesso tempo.
C’è quella stessa dipendenza dall’utero partoriente e inglobante. Quella stessa commistione di eros e thanathos. Ed è l’unica possibilità appagante di riscatto dal non esistere. Il suo contrario è disperazione.
È dunque forse nella colpa dell’indegnità che la vergogna di avere una voce indecente è un passaggio obbligato per poter esserci nella cosa amorosa? Questo lo ignoro, ma forse non c’è altro modo di manifestarsi se non quello di correre il rischio di non esserne degni, di non essere degni di riconoscimento.
E accogliere l’oscenità del nostro non essere decorosi è un’azione indissolubilmente legata alla nostra volontà o necessità o alla ineluttabilità della nostra presenza.
L’esistere stesso è esporsi al non essere udibili, l’unica consolazione è la possibilità di concederci quell’atto rischioso di sostenerne la vergogna.
A complemento di questo articolo ho scelto l’immagine di un quadro di Eric Fischl: Bad Boy, del 198. Fischl è un artista americano che racconta una realtà scomoda del sottobosco suburbano. Si è molto addentrato nel tema dell’esposizione e del voyerismo, come in questo quadro, dove ci sembra che un adolescente posi il suo sgardo concupiscente sulla nudità di una prostituta.
Mi sembra che questa immagine possa disturbarci, sia indecorosa. E che questa indecorosità e indegnità dello scoprirsi, del mostrarsi e del guardare in un contesto osceno, rappresenti bene il momento esatto in cui un’anima si svela ad un’altra nella sua ontologica indegnità e vergogna. Nella debolezza e rischiosità del contesto amoroso si rischia spesso di avere tutto da perdere quando ci distendendiamo per mostrarci: si rischia anche che l’altro ci guardi in piedi, senza toccarci. Ma lo svelarsi, se non è un regalarsi non è mai propriamente indecente, è un atto di coraggio.