Berneri contro l’anticlericarismo fascista di alcuni comunisti e pseudo-anarchici

In questo testo Camillo Berneri chiarisce in maniera molto chiara e diretta che l’anticlericalismo illiberale di molti anarchici o pseudo-anarchici non è altro che puro e semplice fascismo.
Uno scritto breve da leggere e da meditare per tutti gli anarchici e i progressisti, veri o finti.

L’attenzione per l’esperienza religiosa è un tratto costante nella riflessione dell’anarchico Berneri. Non solo dimostra spesso di guardare al tema “religione” con una cura e una tensione interiore che conferiscono alla sua interpretazione dell’agnosticismo una forma problematica piuttosto che apodittica, ma altrettanto spesso usa metafore e argomentazioni riguardanti la religione per sottolineare particolari aspetti etico-politici dei problemi di cui si occupa. Non di rado è la questione della tolleranza ad attirare la sua attenzione, e specialmente la “tolleranza” degli anarchici nelle questioni religiose e di culto, ai quali non di rado propone un modello aperto, possibilista e post‑positivista: memorabile la sua considerazione, risalente al 1930, relativa al nuovo atteggiamento che gli anarchici hanno snaturato: “Non siamo giacobini”, scrive speranzoso, “non siamo più mangia-preti, non siamo sanguinari, siamo tolleranti” Il seguente intervento fu pubblicato sull’Adunata, il 18 gennaio 1936.

Scrive Berneri: ” Ebbene, dichiaro che pur non praticando alcun culto e non professando alcuna religione sarò nel corso della rivoluzione italiana a fianco dei cattolici, dei protestanti, degli ebrei, dei greco-ortodossi ogni qualvolta costoro rivendicheranno la libertà religiosa per tutti i culti. Dato che ho avuto occasione di constatare che questo mio atteggiamento e questo mio proposito non riscuotono l’assenso generale dei miei compagni di fede e di lotta, credo utile, e lo credo utile perché oltre alla santità del principio ho in vista errori rivoluzionari a mio parere gravidi di danni gravi e di pericoli gravissimi, dire il mio pensiero sulla questione.

Ogni intellettuale dovrebbe – ha detto Salvemini nel suo bel discorso al Congresso Mondiale degli Intellettuali – prendere come divisa le parole di Voltaire: “Signor Abate, sono convinto che il vostro libro è pieno di bestialità, ma darei l’ultima goccia del mio sangue per assicurarvi il diritto di pubblicare le vostre bestialità”.

Ogni anarchico – dico io – non può respingere questo principio senza cessare di essere anarchico. Quando, nel corso dell’ultimo congresso mondiale dell’A.I.T. [1], dicevo ai delegati spagnoli di considerare non-anarchico, angusto e pazzesco l’anticlericalismo propugnato dalla C.N.T. [2] e da molti elementi della F.A.I. [3] e che uno dei fattori di successo delle correnti fasciste spagnole era questo loro anticlericalismo, avevo sotto gli occhi una deliberazione compilata da anarchici spagnoli nella quale si negava il diritto ai culti di esteriorizzarsi, pur tollerando i sentimenti intimi, come questi sentimenti non fossero del tutto liberi sotto il tallone di Mussolini, come sotto quello di Hitler e di Stalin. L’anticlericalismo assume troppo spesso il carattere di Inquisizione… razionalista. Un anticlericalismo illiberale, qualunque sia la colorazione avanguardista, è fascista.

Oltre che fascista, l’anticlericalismo illiberale è poco intelligente. Malatesta è sempre insorto contro i fanatici del … libero pensiero. Riportando da un giornale anarchico questa notizia: “A Barcellona è scoppiata una bomba in una processione religiosa lasciando sul terreno 40 morti e non sappiamo quanti feriti. La polizia ha arrestato più di 90 anarchici colla speranza di metter le mani sull’eroico autore dell’attentato”, così la commentava, nel n° unico L’Anarchia, dell’agosto 1896: “Nessuna ragione di lotta, nessuna scusa, niente: è eroico aver ucciso donne, fanciulli, uomini inermi, perché erano dei cattolici? Questo è già peggio della vendetta: è il furore morboso dei mistici sanguinari, è l’olocausto sanguinoso sull’ara di dio o dell’idea, che è poi lo stesso. Oh Torquemada! Oh Robespierre!”

Leandro Arpinati [4], quando faceva l’anarchico, aveva la specialità di promuovere la dispersione delle processioni in quel di Santa Sofia di Forlì; e ha finito per disperdere le processioni rosse in Bologna ed altrove.

Mussolini da mangia-preti è finito “uomo della Provvidenza”. Podrecca [5], l’asinesco direttore dell’Asino, è finito fascista e bacia-pile. L’anticlericalismo grossolano in auge in Italia fino al 1914 ha dato i voltafaccia più spettacolosi; e non poteva essere altrimenti, poiché alla virulenza settaria si univa la superficialità intellettuale e la rigatteria culturale.

L’anticlericalismo in Italia fu fascista quando vietava il suono delle campane, quando impediva o disturbava le processioni, quando invadeva le chiese, quando molestava i preti per le vie, quando falsava la storia, quando appoggiava le false testimonianze di bambini mitomani o di parenti cupidi per contare un “prete porco” di più, quando negava la libertà d’insegnamento, quando sognava d’impedire ai credenti qualsiasi libertà di rito e di culto.

I risultati sono stati quello che sono stati. I comunisti che oggi flirtano con i cristiano-rivoluzionari di Francia e con i cristiano-comunisti di Jugoslavia e si servono di Miglioli [6] come di uno specchietto per allodole democristiane di ogni paese, nel 1919 e nel 1920 contribuirono, con i socialisti … estremisti, a spingere il Partito Popolare verso l’alleanza con il fascismo. I repubblicani, dimentichi di Mazzini, là dove erano preponderanti caddero anch’essi nell’anticlericalismo grossolano e sopraffattore.

Il sovversivismo e il razionalismo demomassonico furono in Italia clericalmente anticlericali. Urbain Gohier [7] scriveva in uno dei suoi acuti articoli (Leur République, Paris, 1906): “Il clericalismo non è l’attaccamento fanatico ad un dato dogma o a certe pratiche; è una forma particolare del pensiero, che si manifesta soprattutto nell’intolleranza. La maggior parte dei sedicenti ‘anticlericali’ di oggi sono dei clericali protestanti o dei clericali ebrei, che combattono la religione cattolica a profitto della loro religione; oppure dei settari massoni, ingombri di altrettanti pregiudizi, di cerimonie altrettanto vane e di orpelli ancor più ridicoli di quelli del clero. I loro principali ‘meneurs’ sono degli ex-preti o degli ex-frati, che non possono sbarazzarsi delle loro abitudini mentali né della loro anteriore disciplina, che ristabiliscono nel ‘libero pensiero’ dei Natali pagani, delle Pasque socialiste, dei battesimi civici, delle comunioni e soprattutto delle scomuniche dei banchetti al posto dei digiuni, degli Evangeli, dei Credo dei catechismi e dei biglietti di confessione”.

Questa categoria di “preti del libero pensiero” ha prevalso in Italia, come in Francia e in Ispagna. In Italia nessuna rivista “razionalista” ha avuto l’importanza culturale de La Civiltà Cattolica dei Gesuiti, della Rivista Neotomistica dei cattolici, di Bylichnis, protestante, di Coenobium, spiritualista. I più seri storiografi delle religioni in Italia sono stati dei preti cattolici o protestanti, e non vi è stato un solo “razionalista” che avesse la preparazione culturale, in materia religiosa, di un Turchi [8], di un Fracassini [9], di un Buonaiuti [10], ecc. In Italia vi era, ancora nel 1919 e 1920, lo scandalo di riviste come Satana di Roma, dirette da asini presuntuosi che criticavano le religioni con argomenti ridicoli e che pubblicavano articoli di una povertà di idee e di documentazione da far pietà.

All’ignoranza e alla stupidità di quell’anticlericalismo faceva riscontro l’intolleranza, che in Francia, sotto l’egemonia massonica, conduceva ad escludere dalle Università dei preti di grande valore soltanto perché preti. Così venne rifiutata una cattedra al padre Scheil [11], una delle migliori autorità in materia di assiriologia. Di lui, il Morgan dice, nel suo trattato Le prime civiltà: “A mala pena, si contano oggi, in Europa, quattro o cinque di questi scienziati (degli assiriologisti) la cui opinione faccia autorità e, fra questi, è V. Scheil che ho avuto la fortuna e l’onore di avere collaboratore nei miei lavori in Persia. Il suo nome resterà per sempre unito alla di lui magistrale traduzione delle leggi di Hammurabi e della decifrazione dei testi elamiti, tour de force compiuto senza l’aiuto di un bilingue”. Gli anticlericali non si commossero affatto di fronte al fatto che ad uno scienziato di reale valore fosse negata la cattedra di assiriologia al Collége de France, perché secondo loro un prete non avrebbe avuto l’imparzialità necessaria per trattare materie aventi relazione con gli studi biblici. Io ebbi a professore di storia delle religioni, all’Università di Firenze, il prof. Fracassini, che era un prete, e nel Circolo di studi filosofici di quella città ebbi occasione di ascoltare delle conferenze del prof. Buonaiuti, anch’egli prete. Ebbene, non esito a dichiarare che non ho mai udito trattare argomenti religiosi con maggiore spregiudicatezza filosofica, con maggiore rigorosità scientifica, con maggiore onestà. Se quasi tutti gli anticlericali non credono che vi possano essere dei preti intelligenti, colti ed onestamente e seriamente sacerdoti cattolici o protestanti o giudaici questo vuol dire che quasi tutti gli anticlericali sono dei clericali a loro modo.

L’anticlericalismo oltre che filosoficamente povero e scientificamente arruffone e superficiale è stato in Italia, e ancora lo è in Francia e in Ispagna, angusto dal lato della comprensione del problema sociale.

Il “pericolo clericale” ha servito in Italia come diversivo alla borghesia liberale e al radicalismo. In Francia, dal 1871 in poi, la lotta contro la chiesa ha permesso alla borghesia repubblicana di evitare le riforme sociali. In Ispagna, il repubblicanismo alla Lerroux [12] ha giocato anch’egli la carta dell’anticlericalismo, che messo in pratica dalle sinistre ha sviluppata la coalizione cattolico-fascista.

Bisogna finirla con questa speculazione. Il proletariato non si nutre di curati. E i rivoluzionari socialisti sanno che la gerarchia ed i privilegi della chiesa sono una cosa mentre il sentimento religioso ed il culto sono un’altra cosa. Il diritto al battesimo non può essere messo sullo stesso piano delle guarentigie pontificie. II convento di francescani non può essere considerato alla stessa stregua della banca cattolica. Il prelato fascista non può essere considerato come il prete che non si è mai piegato al fascismo o come il povero Don Abbondio di villaggio. Le organizzazioni sindacali cattoliche si sono dimostrate capaci, come nella Lomellina, di scioperi, di sabotaggi, di occupazioni di terre e domani, nella rivoluzione italiana, sarebbe stupido mettersi contro, a causa di un giacobinismo anticlericale, larghe masse del proletariato rurale passibili di entrare nel gioco delle forze rivoluzionarie e socialiste. Gli anarchici devono aver fede nella libertà. Quando l’istruzione sarà aperta a tutti, quando la miseria del proletariato sarà scomparsa, quando i ceti medi saranno modernizzati, il clero non potrà più, cessata la sua situazione di casta, colmare interamente i propri quadri. Già nel dopoguerra, i seminari erano spopolati e frequenti i casi di giovani preti che, conquistato un titolo professionale, gettavano la veste talare alle ortiche.

Quando in ogni villaggio il circolo di cultura, il circolo ricreativo, l’associazione sportiva, la filodrammatica, il cinematografo, la radio, ecc. distrarranno la gioventù dalla Chiesa e dai ricreatori cattolici; quando più armoniosa si sarà fatta la convivenza matrimoniale, sì che la donna non sentirà più il fascino della confessione ed il bisogno del conforto religioso; quando di fronte al pergamo sarà la cattedra del maestro, e il prete sarà chiamato non più a pontificare in incontrastato dominio bensì a tenzone di idee in pubblici dibattiti; quando, insomma, il grande soffio della rivoluzione avrà spazzato via quasi tutte le condizioni che il clero rafforzano e corrompono, che al dominio del clero sottomettono ignara infanzia, giovinezza senza orizzonti, femminilità afflitta bisognosa di sperare e avida di sostegno morale, che cosa sarà il “pericolo clericale”? Monumenti di una potenza abbattuta, le chiese, come l’arco imperiale e come il feudale castello, rimarranno, ammutolite le loro campane, silenti le loro navate di canti liturgici, spogli i loro altari di ori e di ceri, quando la rivoluzione abbia vinto negli spiriti. Fino a quando essa sarà vittoria sulle cose, muta e travestita sotto lo sguardo inquisitore dei giacobini, apparentemente vinta e dispersa ma sotto le ceneri più che mai viva, la chiesa risorgerà presto o tardi, forse rafforzata.
L’anticlericalismo anarchico non può essere né illiberale né semplicista.”

Psicologia libertaria: da Kropotkin ai nostri giorni. Liberarsi dell’autoritarismo dentro e fuori di noi

C’e molta ignoranza nel mondo dei profani e anche anarchico sull’uso della psicologia. I profani credono che anarchia sia caos, quando invece è un percorso di evoluzione ed emancipazione da ogni forma di potere che abusi l’individuo. Purtroppo molti sedicenti ” compagni” o persone che si dicono anarchiche o ” antagoniste”, arrivano ad insultarti e ritenerti parte di un sistema oppressivo se sei uno psicologo. Vediamo di cercare di fare chiarezza.

Nella grande opera “Il mutuo appoggio” di Kropotkin, si tocca praticamente ogni branca del sapere umano, compresa la psicologia, che cerca di sostenere un’interpretazione scientifica dell’evoluzione umana in linea con una società anarchica. Kropotkin, come Aristotele, contrastando la visione moderna contrattualista che porta alla democrazia liberale, sottolinea la socialità degli esseri umani. Il supporto reciproco che non solo garantisce la sopravvivenza della specie e del progresso, ma anche un elemento fondamentale della psiche umana:

“Questa è l’essenza della psicologia umana. Mentre gli uomini non si erano ubriacati con la lotta alla follia, hanno ascoltato le richieste di aiuto e hanno risposto a esse. In un primo momento, si è parlato di un certo eroismo personale, e l’eroe vuole che tutti devono seguire il suo esempio. I trucchi della mente non possono resistere al sentimento di aiuto reciproco, perché questo sentimento è stato sollevato per molte migliaia di anni dalla vita sociale umana e centinaia di migliaia di anni di vita preumana nelle società animali.”
Anche ne “La conquista del pane”, Kropotkin si basa sulla psicologia e nell’esperienza degli uomini per considerare che la vita quotidiana nella società è più stabile se si assicura il libero sviluppo delle persone coinvolte nei propri affari (in termini economici, morali, di giustizia, ecc.). Nel suo scritto “Le prigioni”, forse il suo scritto che tratta più la tematica psicologica rispetto agli altri, è più avanti di altre ricerche nel trovare diversi gli effetti dell’ambiente carcerario sul comportamento umano. La sua fiducia in materia di istruzione moderna nel prevenire comportamenti criminali si basa, analogamente, sui progressi della psicologia. In questa opera si riflette anche sopra l’influenza delle cause fisiche negli atti umani, negando così il libero arbitrio e l’approfondimento delle condizioni ambientali. Inoltre, i progressi nelle indagini nella neuropsicologia sottolineano l’importanza delle cause fisiologiche, cioè quelli che dipendono dalla “struttura del cervello e dagli organi digestivi e lo stato del sistema nervoso dell’uomo.” Qualcuno ha voluto vedere in “Le Prigioni” un anticipo sulla futura antipsichiatria e l’opposizione ai manicomi, quando afferma che “le prigioni pedagogiche (i riformatori, ndb), le case di salute, sarebbero infinitamente peggiori degli odierni carceri.”

Come è noto, ne “La morale anarchica”, Kropotkin sviluppa un concetto di moralità basata sull’analisi individuale, la vita sociale e l’umanità in generale. Da questo punto di vista, il sostegno morale viene da ciò che egli considera naturale, qualcosa che può essere chiamato “realismo etico”. Ma la visione kropotkiniana non è riduzionista, se si può parlare del naturalismo in essa, ma anche di utilitarismo quando dice che l’amore, la cooperazione e il mutuo appoggio sono molto utili per lo sviluppo della specie umana. Un altro concetto importante in questo lavoro è l’ “autonomia morale”, in cui si afferma che “nessuna legge regola il fenomeno, solo il fenomeno governa quello che succede, non la legge”. Come in tante altre questioni, fino ad oggi non penso che si abbiano le risposte definitive sul fatto che è possibile conciliare una visione del mondo in modo orizzontale, armonico e individuale autonomo; è importante continuare a riflettere e indagare su tale obiettivo.

Malatesta è un altro autore che riflette l’importanza del passaggio dell’uomo dalla sua visione biologica a quella culturale, visto che quest’ultima è considerata come lo sviluppo del cervello, della lingua e della creatività, le quali rendono migliorabile la loro socialità già innata:
“L’uomo, che ha lasciato i tratti inferiori dell’animale, era debole e inerme nella lotta individuale contro gli animali carnivori, ma essendo dotato di un cervello, che è capace di notevole sviluppo, di una bocca atta per esprimere suoni diversi dalle differenti vibrazioni cerebrali, e specialmente di mano adatta per dare forma alla materia che si desidera modellare, dovrebbe capire presto la necessità nel calcolare i benefici dell’associazione. Probabilmente decise di lasciare i tratti dell’animalità quando divenne socievole e quando ha acquisito l’uso della parola, e quindi un fattore molto potente, della socialità.” (“La anarquia”, ricopiato negli Escritos, Fundación Anselmo Lorenzo 2002).
Nelle “Nuove prospettive della psicologia sociale critica” (Università della Valle, Santiago de Cali 2011), Andrey Velasquez e Yuranny Helena Rojas considerano che si è formato un processo importante, oggigiorno, tra la psicologia come scienza sociale e l’anarchismo come teoria emancipatrice. E’ logico quindi, che dal momento che la repressione psicologica e la repressione sociale, spesso, vadano di pari passo e non perdano di vista la dimensione dell’uno e dell’altro. Un compito dell’anarchismo è proprio rompere la dicotomia tra individuo e società. Ad esempio, Tomas Ibanez, professore di psicologia sociale presso l’Università Autonoma di Barcellona, ​​ha risposto alla domanda del perché si conosce una psicologia libertaria:
“passare a un mondo senza Chiese, per promuovere la libertà e le pratiche per cercare di smantellare le relazioni di dominio” (“Invito a desiderare un mondo senza chiese, ovvero variazioni sopra il relativismo”, Fermentum, 17). A questo proposito, molti postmodernisti che rifiutano i grandi discorsi di emancipazione, hanno sostenuto una sorta di anarchismo decostruttore, e la psicologia sociale sembra nutrirsi in parte di esso. Tuttavia, è discutibile stabilire una divisione ferrea tra anarchismo del passato (presumibilmente obsoleto) e un anarchismo postmoderno. Sensibili sempre a dare ossigeno a determinate lotte, le idee libertarie si sono confermate ancora una volta, e nuovamente, come il futuro della realtà sociale, e non può mai rinunciare alla sua politica liberatoria.

In diversi paesi, c’è un forte interesse accademico dell’anarchismo: nel luglio 2009, nel 53 Congresso Internazionale di Americanistica,si è tenuto il simposio “Anarquía-Anarquismos; História e Atualidades nas Américas”, in cui vi erano 24 documenti; in Messico, l’Asociación Oaxaqueña de Psicología nel 2006 ha pubblicato il “Manifesto della Psicologia anarchica”, che ha sollevato diversi punti di vista della psicologia messicana, proponendo una piattaforma organizzativa di esperti secondo i principi libertari; essa è stata estesa all’Universidad Nacional Autónoma de México (uno dei più grandi in America Latina); negli Stati Uniti, Dennis Fox è un grande esponente della psicologia anarchica in quel paese, come professore associato presso l’Università dell’Illinois e il suo sito web offre importanti testi e molti altri autori del mondo anglosassone.
In Brasile, vi è una terapia libertaria chiamata somaterapia, sviluppata negli anni ’80 da parte di Roberto Freire: essa mira ad identificare l’autoritarismo, in modo da migliorare la creatività e costruire una organizzazione sociale più libera.
In Colombia, sembra che l’interesse accademico per l’anarchismo è stato più complesso nel suo sviluppo, ma ha creato il Centro di Ricerca ed Educazione Popolare Libertario, presso l’Università Nazionale della Colombia a Bogotà, oltre ad essere un settore della Corporación Cultural Estanislao Zuleta de Medellín, nel quale hanno lavorato con accademici dell’Università di Antioquia. Un altro tentativo di collegare l’anarchismo con la disciplina psicologica è il Grupo Estudiantil y Profesional de Psicología Univalle, che nel 2010 ha prodotto una linea di ricerca denominata “Psicología Social Crítica, Comunidad y Anarquismo”, al fine di migliorare le pratiche di ricerca in materia di questioni libertarie ed emancipatrici. Tutti questi sono esempi dell’interesse e dell’attualità che tengono le idee anarchiche anche da un punto di vista psicologico.

Tratto da Reflexiones desde Anarres e tradotto da NexusCo: http://ienaridensnexus.blogspot.it/2012/02/lattualita-dellanarchismo-dalla.html?m=1

La cultura nella società dello spettacolo di Guy Debord

LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA

Avremo dunque una rivoluzione politica? Noi, i coetanei di questi tedeschi? Amico mio, Lei crede ciò che desidera… lo giudico la Germania basandomi sulla sua storia passata e su quella contemporanea; non mi vorrà obiettare che quella storia è un falso e che la vita pubblica odierna non rispecchia la vera situazione del popolo. Legga tutti i giornali che vuole; si convincerà che non si smette, e mi vorrà concedere che la censura non impedisce ad alcuno di smettere, di inneggiare alla nostra libertà e felicità nazionale…
Ruge, Lettera a Marx, marzo 1843 [1]

180. La cultura è la sfera generale della conoscenza e delle rappresentazioni del vissuto nella società storica divisa in classi; come dire che essa è il potere di generalizzazione esistente a parte, come divisione del lavoro intellettuale e lavoro intellettuale della divisione. La cultura si è staccata dall’unità della società del mito, «quando il potere di unificazione è scomparso dalla vita dell’uomo e gli opposti hanno perduto la loro relazione e interazione vivente, e acquistano l’autonomia…» (Differenza dei sistemi di Fichte e Schelling). Guadagnandosi la propria indipendenza, la cultura inizia un movimento imperialistico di arricchimento, che è allo stesso tempo il declino della sua indipendenza. La storia che crea l’autonomia relativa della cultura, e le illusioni ideologiche su questa autonomia, si esprime anche come storia della cultura. E tutta la storia conquistatrice della cultura può essere compresa come storia della rivelazione della sua insufficienza, come una marcia verso la sua autosoppressione. La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta. In questa ricerca dell’unità, la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa.

181. La lotta della tradizione e dell’innovazione, che è il principio di sviluppo interno della cultura delle società storiche, non può essere perseguita che attraverso la vittoria permanente dell’innovazione. L’innovazione nella cultura tuttavia non è portata da nient’altro che dal movimento storico totale che, prendendo coscienza della propria totalità, tende al superamento dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni separazione.

182. Lo sviluppo delle conoscenze della società, che contiene la comprensione della storia come il cuore della cultura, acquista di se stesso una conoscenza senza ritorno, che è espressa dalla distruzione di Dio. Ma questa «condizione preliminare d’ogni altra critica» costituisce insieme l’obbligo preliminare di una critica infinita. Là dove nessuna regola di condotta può più mantenersi, ogni risultato della cultura la fa avanzare verso la propria dissoluzione. Come per la filosofia, nel momento in cui ha guadagnato la propria piena autonomia, ogni disciplina divenuta autonoma deve scomparire, prima di tutto in quanto pretesa di spiegazione coerente della totalità sociale, e poi anche come strumentazione parcellare utilizzabile nell’ambito dei suoi limiti. La mancanza di razionalità della cultura separata è l’elemento che la condanna a scomparire, perché in essa la vittoria del razionale è già presente come esigenza.

183. La cultura è originata dalla storia che ha dissolto il genere di vita del vecchio mondo, ma in quanto sfera separata essa non è ancora che l’intelligenza e la comunicazione sensibile rimaste parziali in una società parzialmente storica. Essa è il senso di un mondo troppo poco sensato.

184. La fine della storia della cultura si manifesta da due opposte parti: il progetto del suo superamento nella storia totale e l’organizzazione del suo mantenimento in quanto oggetto morto nella contemplazione spettacolare. Uno di questi movimenti ha legato la propria sorte alla critica sociale e l’altro alla difesa del potere di classe.

185. Ciascuno dei due lati della fine della cultura esiste in modo unitario, sia in tutti gli aspetti delle conoscenze che in tutti gli aspetti delle rappresentazioni sensibili – in ciò che era l’arte nel senso più generale. Nel primo caso si oppongono l’accumulo delle conoscenze frammentarie, che diventano inutilizzabili perché l’approvazione delle condizioni esistenti deve finalmente rinunciare alle proprie conoscenze, e la teoria della prassi, che da sola detiene la verità di tutte detenendo da sola il segreto del loro uso. Nel secondo caso si oppongono l’autodistruzione critica del vecchio linguaggio comune della società e la sua ricomposizione artificiale nello spettacolo mercantile, la rappresentazione illusoria del non-vissuto.

186. Perdendo il senso della comunità della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della comunità inattiva può venire superata dall’accesso alla reale comunità storica. L’arte, che fu questo linguaggio comune dell’inazione sociale, dal momento in cui si costituisce come arte indipendente in senso moderno, emergendo dal proprio originario universo religioso e divenendo produzione individuale di opere separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia dell’insieme della cultura separata. La sua affermazione indipendente è l’inizio della sua dissoluzione.

187. Il fatto che il linguaggio della comunicazione si è perduto, ecco ciò che esprime positivamente il movimento moderno di decomposizione di ogni arte, il suo annientamento formale. Ciò che questo movimento esprime negativamente è che un linguaggio comune deve venire ritrovato, non più nella conclusione unilaterale che, per l’arte della società storica, arrivava sempre troppo tardi, parlando ad altri di ciò che era stato vissuto senza dialogo reale, e ammettendo questa deficienza della vita, ma deve essere ritrovato nella prassi, che riunisce in essa l’attività diretta e il suo linguaggio. Si tratta di possedere effettivamente la comunità del dialogo e il gioco con il tempo che sono stati rappresentati dall’opera poetico-artistica.

188. Quando l’arte divenuta indipendente rappresenta il proprio mondo con dei colori brillanti, un momento della vita è invecchiato e non si lascia ringiovanire con dei colori brillanti. Si lascia soltanto evocare nel ricordo. La grandezza dell’arte non comincia ad apparire che al venir meno della vita.

189. Il tempo storico che pervade l’arte si è espresso prima di tutto nella sfera stessa dell’ arte, a partire dal barocco. Il barocco è l’arte di un mondo che ha perduto il proprio centro: l’ultimo ordine mitico riconosciuto dal Medioevo, nel cosmo e ne! governo terreno – l’unità della Cristianità e il fantasma di un Impero – è caduto. L’ arte del cambiamento deve portare in sé il principio effimero che si scopre nel mondo. Essa ha scelto, dice Eugenio d’Ors, «la vita contro l’eternità». Il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti dominanti della realizzazione barocca, nella quale ogni espressione artistica particolare non acquista il proprio senso se non nel riferimento allo scenario di un luogo costruito, ad una costruzione che dev’essere per se stessa il centro dell’unificazione: e questo centro è il passaggio, che è iscritto come un equilibrio minacciato nel disordine dinamico del tutto. L’importanza, talvolta eccessiva, acquisita dal concetto di barocco nella discussione estetica contemporanea, traduce la presa di coscienza dell’impossibilità di un classicismo artistico: gli sforzi in favore di un classicismo o neoclassicismo normativo, dopo tre secoli, non sono stati che delle brevi costruzioni artificiali parlanti il linguaggio esteriore dello Stato, quello della monarchia assoluta o della borghesia rivoluzionaria vestita alla romana. Dal romanticismo al cubismo, si ha alla fine un’arte della negazione sempre più individualizzata, rinnovantesi perpetuamente fino alla dispersione e alla negazione completa della sfera artistica, quella che ha seguìto il corso generale del barocco. La scomparsa dell’arte storica, che era legata alla comunicazione interna di un’élite, che aveva la propria base sociale semindipendente nelle condizioni parzialmente ludiche ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce anche il fatto che il capitalismo conosce ii primo potere di classe che si mostra spogliato di ogni qualità ontologica: e la cui radice del potere, posta nella semplice gestione dell’ economia, è ugualmente la perdita di ogni padronanza umana. L’insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso una unità da lungo tempo perduta, si ritrova in qualche modo nel consumo attuale della totalità del passato artistico. La conoscenza e il riconoscimento storico di tutta l’arte del passato, retrospettivamente costituita in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale, che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa di un’arte barocca e tutte le sue risorgenze. Le arti di tutte le civiltà e di tutte le epoche, per la prima volta, possono essere tutte conosciute e ammesse insieme. E’ un «repertorio di ricordi» della storia dell’arte che, divenendo possibile, è anche la fine del mondo dell’arte. E’ in quest’epoca di musei, quando nessuna comunicazione artistica può più esistere, che tutti i trascorsi momenti dell’arte possono essere ugualmente ammessi, perché nessuno di essi patisce più della perdita delle proprie condizioni particolari di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di comunicazione in generale.

190. L’arte nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo teso al superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso tempo un’arte del cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di essa. Quest’arte è necessariamente d’avanguardia, e non lo è. La sua avanguardia è la sua scomparsa.

191. Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che hanno segnato la fine dell’arte moderna. Essi sono contemporanei, anche se in modo relativamente cosciente, dell’ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che li ha lasciati rinchiusi nello stesso campo artistico di cui avevano proclamato la caducità, è la ragione fondamentale della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono allo stesso tempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che costituisce anche ciascuno di loro la parte più conseguente e radicale del loro apporto, appare l’insufficienza interna della loro critica, sviluppata unilateralmente dall’uno come dall’altro. Il dadaismo ha voluto sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l’arte senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell’arte.

192. Il consumo spettacolare che conserva la vecchia cultura congelata, compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative, diviene apertamente nel suo settore culturale ciò che è implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell’incomunicabile. La distruzione estrema del linguaggio vi si può trovare piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, perché si tratta di esibire una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è proclamata allegramente assente. La verità critica di questa distrazione, in quanto vita reale della poesia e dell’arte moderne, è evidentemente nascosta, perché lo spettacolo, che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura, applica nella pseudonovità dei suoi mezzi modernisti la strategia stessa che lo costituisce in profondità. Può così accadere che venga a spacciarsi per nuova una scuola di neoletteratura che ammette semplicemente di contemplare lo scritto per se stesso. Oppure, a fianco della semplice proclamazione della sufficiente bellezza del dissolvimento del comunicabile, la tendenza più moderna della cultura spettacolare – e la più legata alla pratica repressiva dell’organizzazione generale della società – cerca di ricomporre, con dei «lavori collettivi», un ambiente neoartistico complesso a partire da elementi decomposti; in particolare nelle ricerche di integrazione dei frammenti artistici o degli ibridi estetico-tecnici nell’urbanismo. Questa è la traduzione sul piano della pseudocultura spettacolare, del progetto generale del capitalismo sviluppato, che mira a riprendere il lavoratore parcellare «come personalità ben integrata nel gruppo»: tendenza descritta dai recenti sociologi americani (Riesman, Whyte ecc.). Dappertutto è lo stesso progetto di una ristrutturazione senza continuità.

193. La cultura diventata integralmente merce deve anche divenire la merce-vedette della società spettacolare. Clark Kerr, uno degli ideologi più avanzati di questa tendenza, ha calcolato che il complesso processo di produzione, distribuzione e consumo delle conoscenze, accaparra negli Stati Uniti già annualmente il 29% del prodotto nazionale: e prevede che la cultura debba tenere nella seconda metà di questo secolo il ruolo motore nello sviluppo dell’economia, ruolo che fu quello dell’automobile nella prima metà, e delle ferrovie nella seconda metà del secolo scorso.

194. L’insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi come pensiero dello spettacolo deve giustificare una società senza giustificazioni e costituirsi come scienza generale della falsa coscienza. Essa è interamente condizionata dal fatto che essa non può e non vuole pensare la propria base materiale nel sistema spettacolare.

195. Il pensiero dell’organizzazione sociale dell’apparenza è esso stesso oscurato dalla sottocomunicazione generalizzata che esso difende. Non sa che il conflitto è all’origine di tutte le cose del suo mondo. Gli specialisti del potere dello spettacolo, potere assoluto all’interno del suo sistema di linguaggio senza risposta, sono assolutamente corrotti dalla loro esperienza del disprezzo e del successo del disprezzo; perché essi trovano il loro disprezzo confermato dalla conoscenza dell’uomo disprezzabile che è veramente lo spettatore.

196. Nel pensiero specializzato del sistema spettacolare si opera una nuova divisione dei compiti, man mano che il perfezionamento stesso di questo sistema pone dei nuovi problemi: da una parte la critica spettacolare dello spettacolo è intrapresa dalla moderna sociologia, la quale studia la separazione con l’ausilio dei soli strumenti concettuali e materiali della separazione; dall’altra l’apologia dello spettacolo si costituisce come pensiero del non-pensiero, in oblio titolato della pratica storica, nelle diverse discipline in cui si radica io strutturalismo. Tuttavia, la falsa disperazione della critica non-dialettica e il falso ottimismo della pura pubblicità del sistema sono identici in quanto pensiero sottomesso.

197. La sociologia che ha incominciato a mettere in discussione, prima di tutto negli Stati Uniti, le condizioni di esistenza originate dallo sviluppo attuale, malgrado abbia potuto apportare molti dati empirici, non conosce affatto la verità del proprio oggetto, perché non trova in esso la critica che gli è immanente. Di modo che la tendenza sinceramente riformista di questa sociologia non poggia se non sulla morale, sul buon senso, su richiami aleatori quanto totalmente inadeguati al fine ecc. Un tale modo di criticare, dal momento che non conosce il negativo insediato al centro del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una sorta di eccedenza negativa che gli sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie, come una proliferazione parassitaria irrazionale. Questa buona volontà indignata, che anche in quanto tale non riesce a biasimare se non le conseguenze esteriori del sistema, si crede critica dimenticando il carattere essenzialmente apologetico dei suoi presupposti e del suo metodo.

198. Coloro che denunciano l’assurdità o i pericoli dell’incitamento allo spreco nella società dell’abbondanza economica, non sanno a che cosa serva lo spreco. Essi condannano con ingratitudine, in nome della razionalità economica, i buoni guardiani irrazionali senza i quali il potere di questa razionalità economica crollerebbe. E Boorstin, per esempio, che descrive in L’immagine il consumo mercantile dello spettacolo americano, non raggiunge mai il concetto di spettacolo, perché egli crede di poter lasciare al di fuori di questa disastrosa esagerazione la vita privata o la nozione di «onesta merce». Egli non comprende che la merce stessa ha fatto le leggi la cui applicazione «onesta» deve condurre sia alla realtà distinta della vita privata, che alla sua ulteriore riconquista attraverso il consumo sociale delle immagini.

199. Boorstin descrive gli eccessi di un mondo che ci è diventato estraneo, come eccessi estranei al nostro mondo. Ma la base «normale» della vita sociale alla quale egli si riferisce implicitamente, quando qualifica il regno superficiale delle immagini in termini di giudizio psicologico e morale come il prodotto delle «nostre stravaganti pretese», non ha nessuna realtà, né nel suo libro, né nel suo tempo. E’ per il fatto che la vita umana reale di cui parla Boorstin è per lui nel passato, compreso il passato della rassegnazione religiosa, che egli non può comprendere tutta la profondità di una società dell’immagine. La verità di questa società non è altro che la negazione di questa società.

200. La sociologia che crede di poter isolare dall’insieme della vita sociale una razionalità industriale funzionante a parte, può anche arrivare ad isolare dal movimento industriale globale le tecniche di riproduzione e trasmissione. E’ così che Boorstin individua la causa dei risultati che egli dipinge nell’infelice incontro, quasi fortuito, tra un eccessivo apparato tecnico di diffusione e un’eccessiva attrazione degli uomini della nostra epoca per lo pseudosensazionale. Così lo spettacolo sarebbe dovuto al fatto che l’uomo moderno è troppo spettatore. Boorstin non comprende che la proliferazione degli «pseudoeventi» prefabbricati che denuncia, è originato semplicemente dal fatto che gli uomini, nella massificata realtà dell’ attuale vita sociale, non vivono gli avvenimenti in modo autonomo. E’ per il fatto che la storia stessa ossessiona la società moderna come uno spettro, che si ritrova della pseudostoria costruita a tutti i livelli del consumo della vita per preservare l’equilibrio minacciato dell’attuale tempo congelato.

201. L’affermazione della stabilità definitiva di un breve periodo di congelamento del tempo storico costituisce la base innegabile, inconsciamente e consciamente proclamata, dell’attuale tendenza ad una sistematizzazione strutturalistica. Il punto di vista da cui si pone il pensiero antistorico dello strutturalismo è quello dell’eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che non finirà mai. Il sogno della dittatura di una struttura preliminare inconscia su ogni prassi sociale ha potuto essere abusivamente ricavato dai modelli di struttura elaborati dalla linguistica e dall’etnologia (ovvero dall’analisi del funzionamento del capitalismo), modelli già abusivamente compresi in queste circostanze, semplicemente perché un pensiero universitario di quadri medi, presto soddisfatti, pensiero interamente preso nell’elogio meravigliato del sistema esistente, riporta piattamente ogni realtà all’esistenza del sistema.

202. Come in ogni scienza sociale storica, bisogna sempre tenere d’occhio, per la comprensione delle categorie «strutturalistiche», che le categorie esprimono forme e condizioni di esistenza. Come non si può valutare il valore di un uomo, secondo la concezione che egli ha di se stesso, non si può valutare – e ammirare – neanche questa determinata società accettando come indiscutibilmente veridico il linguaggio che essa parla a se stessa. «Non si possono giudicare tali epoche di trasformazione secondo la coscienza che se ne ha al momento: al contrario, si devono spiegare queste forme di coscienza con le contraddizioni della vita materiale…». La struttura è figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero garantito dallo Stato, che pensa le presenti condizioni della «comunicazione» spettacolare come un assoluto. Il suo modo di studiare il codice dei messaggi in sé non è che il prodotto e il riconoscimento di una società in cui la comunicazione esiste sotto forma di una cascata di segnali gerarchici. Non è lo strutturalismo quindi che serve a provare la validità metastorica della società dello spettacolo: è invece al contrario la società dello spettacolo, nel momento in cui s’impone come realtà di massa, che serve a provare il sogno freddo dello strutturalismo.

203. Senza dubbio, il concetto critico di spettacolo può anche venire volgarizzato in una qualsiasi forma vuota della retorica sociologico-politica per spiegare e denunciare astrattamente tutto, e servire così alla difesa del sistema spettacolare. Perché è evidente che nessuna idea può portare al di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di là delle idee esistenti sullo spettacolo. Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, ci vogliono degli uomini che mettano in azione una forza pratica. La teoria critica dello spettacolo non è vera se non unificandosi con la corrente pratica della negazione nella società, e questa negazione, la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria, diventerà cosciente di se stessa sviluppando la critica dello spettacolo, che è la teoria delle sue reali condizioni, delle condizioni pratiche dell’oppressione attuale, e che inversamente svela il segreto di ciò che essa può essere. Questa teoria non attende miracoli dalla classe operaia. Essa affronta la nuova formulazione e la realizzazione delle esigenze proletarie come un compito di lungo respiro. Per distinguere artificialmente lotta teorica e lotta pratica – dato che, sulla base qui definita, la costituzione stessa e la comunicazione di una teoria del genere non possono concepirsi senza una pratica rigorosa – è certo che il cammino oscuro e difficile della teoria critica dovrà avere lo stesso destino del movimento pratico agente sul piano della società.

204. La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio. E’ il linguaggio della contraddizione, che dev’essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e critica storica. Non è un «grado zero della scrittura», ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.

205. Nel suo stesso stile, l’esposizione della teoria dialettica è uno scandalo e un abominio per le regole del linguaggio dominante e per il gusto che esse hanno educato, perché nell’impiego positivo dei concetti esistenti esso include contemporaneamente l’intelligenza della loro fluidità ritrovata, della loro necessaria distruzione.

206. Questo stile che contiene in sé la propria critica deve esprimere il dominio della critica presente su tutto il suo passato. Attraverso di esso, le modalità di esposizione della teoria dialettica testimoniano dello spirito negativo che è in essa. «La verità non è come il prodotto in cui non si trovano più tracce dell’utensile» (Hegel). Questa coscienza teorica del movimento, nella quale la traccia stessa del movimento dev’essere presente, si manifesta attraverso il rovesciamento delle relazioni stabilite fra i concetti e con il détournement di tutte le acquisizioni della precedente critica. Il rovesciamento del genitivo è l’espressione delle rivoluzioni storiche, registrata nella forma del pensiero, che è stata considerata come lo stile epigrammatico di Hegel. Il giovane Marx, preconizzando, secondo l’uso sistematico che ne aveva fatto Feuerbach, la sostituzione del soggetto col predicato, è giunto all’impiego più conseguente di questo stile insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, ricava la miseria della filosofia. Il détournement riporta alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state stereotipizzate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne. Già Kierkegaard ne ha fatto un uso deliberato e quindi anche la denuncia: «Ma nonostante il rimestare, la marmellata va a finire sempre in dispensa, finisci sempre per far scivolare una parolina che non è tua e che turba con il ricordo che risveglia» (Briciole filosofiche). E’ l’obbligo della distanza, verso ciò che è stato falsificato in verità ufficiale che determina quest’impiego del détournement, così delineato da Kierkegaard nello stesso libro: «Una sola osservazione ancora a proposito delle tue numerose allusioni, miranti tutte al fatto che io mescolo ai miei discorsi espressioni prese a prestito altrove, lo non lo nego qui, e non nasconderò neanche il fatto che era voluto, e che in un nuovo seguito a questa brochure, se mai lo scriverò, ho intenzione di nominare l’oggetto con il suo vero nome e di rivestire il problema di un costume storico».

207. Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella una falsa idea, la sostituisce con l’idea giusta.

208. Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto che è divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento e infine dalla sua epoca, come riferimento globale, e dall’opzione precisa che essa era all’interno di tale riferimento, esattamente riconosciuto o erroneo. Il détournement è il linguaggio fluido dell’antideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere nessuna garanzia in se stessa e definitivamente. E’, nel suo punto più alto, il linguaggio che nessun riferimento antico e sovracritico può confermare. Al contrario, è proprio la sua coerenza, in se stesso e con i fatti praticabili, che può confermare il vecchio nucleo di verità che vi riporta. Il détournement non ha fondato la propria causa su nulla di esterno alla propria verità come critica presente.

209. Ciò che nella formulazione teorica si presenta apertamente come détourné, smentendo ogni autonomia durevole della sfera della teoria espressa, e facendovi intervenire mediante questa violenza l’azione che sconvolge e ribalta ogni ordine esistente, ricorda che questa esistenza della teoria non è nulla in se stessa, e non può riconoscersi che nell’azione storica e con la correzione storica che è la sua vera fedeltà.

210. La negazione reale della cultura è la sola che ne conserva il senso. Essa non può più essere culturale. Pertanto, essa è ciò che resta, in qualche modo, al livello della cultura, anche se in un’accezione molto diversa.

211. Nel linguaggio della contraddizione, la critica della cultura si presenta unificata: in quanto essa domina l’insieme della cultura – la conoscenza come la poesia – e in quanto non si separa più dalla critica della totalità sociale. E questa critica teorica unificata la sola che va incontro alla pratica sociale unificata.

1. In A. Ruge-K. Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di G.M. Bravo, Massari editore, Bolsena 2001, pp. 49 e 52 [n.d.r.].

Psicoanalisi e politica. Recalcati: il principio di realtà nella politica attuale

Pubblichiamo un editoriale di Massimo Recalcati uscito oggi su la Repubblica.
La recente condanna di Berlusconi e l’insostenibile leggerezza ancora più recente del ministro dell’Interno Alfano, entrambi impegnati a negare anziché assumere le proprie responsabilità, hanno definitivamente fatto scoppiare la bolla della “pacificazione”. Siamo chiari: la tesi che il governo delle larghe intese avrebbe inaugurato un nuovo tempo politico, quello, appunto, della cosiddetta pacificazione, che coincideva, tra le altre cose, con la riabilitazione di Berlusconi come statista ponderato, si fondava su quello che in termini strettamente psicoanalitici si chiama “rimozione della realtà”. Ovvero l’esatto contrario di quel “principio di realtà” che era apparso carico di promesse sincere nel discorso inaugurale del presidente Letta alla Camera dei deputati.
Di cosa si tratta quando in psicoanalisi parliamo di “rimozione della realtà”? Accade esemplarmente nella psicosi. Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale. Il pezzo di legno cerca di supplire pietosamente al buco scavato dalla realtà dal trauma della morte prematura della bambina. Quella figlia così teneramente amata non esiste più, se n’è andata, è morta.
L’idea della pacificazione non assomiglia forse a questa sostituzione delirante? Essa non può aspirare ad alcuna dignità politica, non può essere la base di un nuovo patto politico, perché si fonda su una negazione delirante della realtà. Di quale realtà? La realtà della morte in Italia di una destra autenticamente liberale, capace di fare gli interessi generali del Paese anziché essere uno strumento al servizio di un uomo che avendo notevoli problemi con la giustizia da un ventennio utilizza la politica per difendere strenuamente i propri interessi personali.
Nell’esempio raccontato da Freud il delirio consiste nel rifiuto della realtà e nella sostituzione della realtà con qualcosa che non esiste. L’idea della pacificazione si fondava su un vero e proprio accecamento di questo genere: la figura di Berlusconi statista appare a tutti gli uomini ragionevoli, di destra come di sinistra, una affermazione delirante, cioè completamente scissa dalla realtà. All’indomani delle elezioni la sua forza rappresentativa si era oggettivamente assai ridotta e non si era esaurita irreversibilmente solo grazie alla scelta scellerata del Pd di non candidare Matteo Renzi. Eppure questo governo si è realizzato ancora alla sua ombra ed è ostaggio del suo capriccio.
L’idea della pacificazione vuole sostituire la dimensione politica del conflitto con la negazione delirante della realtà. La realtà è che in Italia destra e sinistra non possono governare insieme non perché, come ritiene un’altra forma di rimozione della realtà qual è il catarismo grillino, sono uguali ma perché sono profondamente diverse. Se su queste pagine ho frequentemente ricordato come il ruolo nobile e alto della politica consista nella sua capacità di comporre dialetticamente le diverse istanze di cui è fatta la vita della polis, mi pare altrettanto fondamentale oggi ricordare che in una democrazia non bisogna avere paura del conflitto perché il conflitto politico è il sale della democrazia. Soprattutto se la negazione del conflitto comporta l’idea di una falsa unità, di una convergenza solo apparente tra le opposizioni. Tra l’altro è proprio la possibilità che il conflitto politico trovi delle adeguate rappresentazioni democratiche e parlamentari ad essere la prevenzione più efficace ad ogni forma di violenza irrazionale.
Come la povera madre che anziché affrontare il dolore per la morte della propria figliola, la rimpiazza con un pezzo di legno, il governo Letta sembra insistere nel credere – sfidando davvero ogni principio di realtà – che sia possibile governare con una destra pronta ad occupare le sedi dei Tribunali e a far cadere il governo se il suo capo non verrà messo al riparo dall’azione della giustizia.
In psicoanalisi esiste una legge del funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare dalla memoria – nel nostro caso il ventennio berlusconiano – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza. Non è un caso che tutti i tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri di storia.
In 1984 il Grande Fratello orwelliano rende come prima cosa impossibile il pensiero storico perché sa che quel pensiero è sempre pensiero critico, pensiero che sa fare obiezione alla falsificazione. Come accade alla povera madre delirante raccontata da Freud si vorrebbe trasformare la bimba morta e perduta per sempre in una bimba viva e sorridente. Ma un pezzo di legno non fa una bambina, così come Berlusconi non fa uno statista. La pacificazione rischia allora di essere una pura falsificazione. È questo, in fondo, il suo peccato originale.

via Rimozione e pacificazione : La Repubblica

Come Twitter crea il pettegolezzo e deforma i fatti

Voglio usare come esempio una cosa che è successa ieri su Twitter per parlare di un problema che affligge questo social: Twitter spesso oltre a dare informazioni preziose, crea pettegolezzo riproducendo le più meschine dinamiche umane. “La Collevecchio litiga con Scialpi e gli fa una seduta di psicologia”. Questo è uno dei tweet che ho letto ieri sera circa un mio dialogo, a tratti acceso per via di un malinteso, con Scialpi. Capire come sono andati i fatti veramente è importante per comprendere come su Twitter spesso deformiamo le notizie, ci facciamo opinioni sbagliate, giudizi politici errati , perché non approfondiamo ma leggiamo solo un tweet. Ieri sera ho letto su questo social molti sfottò contro il cantante Scialpi, famoso negli anni ’80. ” Sei un fallito”, ” non ti caga più nessuno”, “Fai pena”sono solo gli esempi più leggeri. Ho letto anche le risposte di Scialpi, fatte di parolacce e rabbia. Rabbia giustificata ma mal direzionata, che su un mezzo come Twitter si ritorce contro e diventa motivo di altri attacchi. Insomma se ti criticano e tu sei ” famoso” e rispondi con un insulto, considerati massacrato. Umanamente ho provato tristezza e gli ho scritto di non rispondere in quel modo perché sarebbe passato dalla parte del torto. Gli ho scritto anche che Twitter è un mezzo aggressivo pieno di gente che vuole sfogare la sua rabbia in 140 caratteri. E che si era messo in una situazione di fragilità quindi aggredirlo era come sparare sulla croce rossa perché lui, rispondendo a tutti diventava ancora di più bersaglio. Troppe persone usano Twitter per sfogare frustrazioni, aggredire l’altro, fare commenti sarcastici, trollare e insultare. Insomma mi sarei potuta fare i fatti miei, l’indifferenza paga di più rispetto a chi ha il coraggio di esporsi quando vede un sopruso ma ho provato davvero tristezza per una persona che a 50 anni si rimette in gioco e subisce scherni e insulti. Ho provato anche tristezza leggendo la sua reazione. Lui all’inizio non ha capito cosa intendessi e, abituato agli attacchi, si è inquietato. C’è da dire che se Scialpi si mette a cercare ogni persona che lo nomina o critica su Twitter, per insultarla, un po’ se le cerca. Una volta scrissi ad un amico che mi dispiaceva di come Scialpi avesse cambiato fisionomia negli anni e lui, spuntato dal nulla si arrabbiò molto. Un personaggio pubblico non può passare la vita a cercare tutte le persone che lo nominano per dirgli parolacce ma evidentemente questo cantante sta combattendo contro il mostro del successo, cercato, avuto , perduto, ed è molto reattivo alle critiche. Si può comprendere una cosa del genere. Poi comunque, ci siamo chiariti. Voi direte: e che ci frega di tutta questa ” gossippata? ” niente ma la mia riflessione va più in là. Su twitter alcune persone ( le pettegole da balcone ) leggendo solo un paio di tweet hanno scritto ” la Collevecchio litiga con Scialpi”, anche questo è irrilevante. Ciò che merita riflessione è: ci rendiamo conto di come diamo in fretta dei giudizi senza approfondire? Come sia facile desumere in modo errato e arrivare a conclusioni sbagliate ? E se questo accade anche nei casi in cui in ballo ci sono cose serie? L’iper semplificazione di twitter è aberrante se partorisce hashtag di insulti e gogna mediatica ad una persona solo per una frase sbagliata, se porta le persone a dare giudizi politici approssimativi, legati al parere del parere del parere di chissà chi. L’informazione corre su Twitter? anche la disinformazione, l’approssimazione, la mistificazione e il pettegolezzo. Quando tutto questo avviene con la politica o contro persone deboli, è pericoloso. Cosa ci porta a dare giudizi frettolosi e crearci opinioni errate prive di approfondimento? Come sempre non è il mezzo ( Twitter) il colpevole ma noi stessi. Presi dalla velocità, dal desiderio narcisistico di dire la nostra, dobbiamo sparare giudizi. Cosa spinge invece molte persone ad attaccare in branco una sola? la debolezza dell’altro ci fa schifo perché ci ricorda la nostra, quella che vogliamo negare, proiettandola altrove. Allora come bambini sadici che torturano un gattino, ci scagliamo contro qualcuno sul web, tutti uniti in un orda primitiva, bestiale, da branco.

Questo è il succo di quel che ho scritto ieri, vi sembra una lite?

Questo è il succo di quel che ho scritto ieri, vi sembra una lite?

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I famigerati Black bloc . A Gezi park tutti eroi, in Val di Susa Tutti stronzi?

I No tav pericolosi devastatori da picchiare come al G8 di Genova?

Ricorre l’anniversario di Genova 2001, la morte di Carlo Giuliani è stata definita da alcuni sul web una morte giusta: ” se l’e cercata”, dicono. Sono inorridita, è giusto passare due volte sul corpo di un ragazzo esanime? Qual è il confine tra violenza e giustizia? Aveva commesso un reato ? non bastava arrestarlo? Ora molta parte dell’opinione pubblica e del PDL definisce vandali e  terroristi i No Tav, qualcuno invoca con veemenza più durezza da parte delle forze dell’ordine. Addirittura Riotta in un tweet ha scritto che la maggioranza degli italiani sarebbe a favore del Tav. Chi gli ha dato quei numeri? Calcolando i voti del Movimento 5 stelle, di Sel e di parte del Pd ( Puppato e Renzi sono contro il tav), ritengo sia molto più probabile che moltissimi italiani siano contro quest’opera a mio avviso inutile. C’è poi chi definisce i No tav “ ricchi figli di papà”, non mi pare di leggere queste considerazioni sugli Occupy o su chi ha protestato a Gezi park ma come ho scritto altrove me l’aspettavo: sono tutti rivoluzionari quando la protesta non è a casa propria. Passiamo all’accusa di violenza. Io ho conosciuto personalmente i Black Block austriaci  i giorni prima del G8 di Genova, vivevo nello squat a Torino dove sono stati ospiti e  visto che non li avevo mai sentiti nominare, ho avuto modo di discuterci per capire le loro pratiche. Ho sentito con le mie orecchie dire dai Black Block che  azioni di devastazione scellerata e saccheggio non avevano nulla a che fare con la loro filosofia e che spesso dovevano difendersi dai ragazzini che li emulavano pur non comprendendone la weltanshaaung . Quello che tanti anni fa  ho capito dalle mie discussioni con loro è che queste persone hanno una visione politica molto chiara: per loro le banche e tutto ciò che rappresenta il potere capitalistico è un obiettivo politico da aggredire. Così come per molti rivoluzionari erano da far crollare e distruggere il busto di Stalin o  monumenti di Hitler. Quindi un bancomat per loro è il simbolo di un potere autoritario e viene attaccato in quanto tale, nessuno di loro si sognerebbe di distruggere il motorino di un poveraccio che lo sta pagando pure a rate, per capirci. E infatti ritornati da Genova molti compagni si sono interrogati proprio sull’effetto emulazione di tanti ragazzini che creando problemi a gente normale, hanno inficiato la protesta. Fanno bene, fanno male i black bloc? La loro pratica è un atto politico, per quanto discutibile da molti anche all’interno dei movimenti e dei giri anarchici ed io , con lucidità e senza tifo, comunque cerco di capirne la logica. Se anche tu che leggi sei pronto a toglierti per un attimo dalla testa emozioni e partigianeria e vuoi cercare di capire con il cervello e lucidità, continua a leggere.

Chi è usurpato della sua terra può arrivare a rompere un filo spinato o un mezzo che serve per bucare una montagna perché il contesto che vive è da guerriglia, così come lo era quello in cui è morto Carlo Giuliani. Guerriglia provocata anche dall’uso sconsiderato della violenza dalla parte delle forze dell’ordine che hanno massacrato in modo scellerato persone innocenti. Ora mi direte : “ ma rompere qualcosa è illegale”, certo che lo è, ma chi lo fa potrebbe rispondervi :” anche rompere un busto di Mussolini lo era durante il regime”. E poi se permettete è più grave rompere la testa di un essere umano a manganellate che un compressore! Cosa voglio dire? Che psicologicamente chi vive un abuso può reagire in tre modi: cercare giustizia attraverso la legge, subire l’abuso, reagire con mezzi fisici se ritiene che la legge sia fatta da uno Stato che per primo effettua abusi: questo è accaduto durante il G8 di Genova quando anche chi non aveva reagito alle cariche, ad un certo punto si è sentito in un contesto in cui difendersi era imprescindibile. Mi risponderete : “ Ma l’abuso è di chi va contro lo Stato”, ma questa è la visione di chi a prescindere, pensa che lo Stato abbia sempre ragione. E se così non fosse? E’ molto difficile cercare di entrare nella logica del “Totalmente altro”, io ci ho provato, credo faccia parte anche di un difetto professionale e del mio essere libertaria e curiosa di scoprire e capire vari punti di vista. Credo che chi commette un’azione illegale  come rompere un bancomat o un mezzo che serve al cantiere del Tav, sappia di subirne le conseguenze, ma fino a che punto le conseguenze hanno a che fare con la legge e quando sconfinano nell’abuso di essa? provo a commettere il reato di cercare di capire. Lo ribadisco perché già immagino le critiche: non giustifico la violenza  ma capisco quando un atto violento è consequenziale ad un’ingiustizia. È più violento manganellare a sangue o torturare un essere umano  come durante il G8 che rompere un bancomat o una rete spinata, che sono oggetti . Credo che neppure un assassino preso in flagranza di reato meriti la tortura fisica o manganellate che lo massacrino: altrimenti saremmo nella legge del taglione, non in un consesso civile.  E se lo Stato non dà l’esempio, punendo fisicamente spesso anche degli innocenti presi per sbaglio, come si può pretendere che lo faccia chi si sente vittima di un abuso?  Perché la violenza di stato è legale. Quindi abbiamo da una parte chi può far violenza legalmente sulle persone e dall’altra chi viene messo in galera se rompe delle cose. Fa bene quindi chi invoca punizioni più dure o forse non sarebbe meglio evitare di inasprire gli animi e  indire un referendum o dialogare con i No tav ? E come mai chi occupava Gezi Park e metteva a ferro e fuoco la Turchia era un eroe e chi occupa qui invece è sempre e comunque un delinquente? La riflessione è aperta. Ma solo per chi riesce a capire cosa voglia dire subire un abuso e reagire di conseguenza. Può non piacere ma il sistema capitalistico su cui si basa il nostro stato a molti non piace, così come ai partigiani non piaceva il fascismo. E se qualcosa ti fa male, crea diseguaglianza, esclusione, ingiustizia, poveri e morte, ci sarà sempre qualcuno che reagirà. Quella dei black bloc non è una pratica fattibile e intelligente secondo me, perché mette a repentaglio molti e perché non è in un contesto adeguato ma è misconosciuta, non capita e affibbiata ad minchiam. Tra anarchici ci sono state anche tante discussioni e fazioni per questo e un’altro motivo di rabbia è vedere come un anarchico, che è sempre un essere umano unico e irripetibile, venga etichettato in modo ignorante. Nel mondo anarchico ci sono innumerevoli diversità e pratiche completamente diverse: dal pacifismo più totale all’azione diretta. Gli stessi anarchici litigano tra di loro per le diverse posizioni. O si cerca di capire e conoscere o è meglio tacere.

Caso de Cataldo: Richiesta di rettifica a Giornalettismo e Chiara Lalli

Riguardo all’articolo pubblicato sul vostro giornale online da Chiara Lalli Vorrei sottolineare che mi viene rivolta una accusa molto grave e totalmente infondata.

Nell’articolo si lascia intendere che io avrei scritto un “commento” nel quale accusavo Massimo Di Cataldo di aver commesso delle violenze nei confronti della moglie-compagna, e avere di conseguenza fomentato un linciaggio mediatico contro il cantante.
Ciò non è affatto vero in quanto io ho inizialmente solo postato la notizia così com’è apparsa nei principali giornali senza minimamente commentarla.
Così come successivamente ho riportato anche le smentite di Di Cataldo e la notizia che la donna non ha intenzione di sporgere denuncia. Tutte le notizie che ho riportato erano prive di commento personale ma la semplice visione dei fatti dei diretti interessati.
L’unico mio commento è stato che qualsiasi fosse la verità, si tratta comunque di un caso “patologico e clinico” e un retweet di un commento che affermava che il social media non è luogo adatto per denunce o processi..
Chiedo quindi,  che come prevede la La legge n. 47 del 1948 (art. 8) Legge sulla stampa,  venga  rettificato l’articolo che in pratica mi accusa e lascia intedere, che io abbia espresso un giudizio di colpevolezza e aizzato gli utenti ad emettere una sentenza sommaria.
Trovo molto grave l’accusa che mi viene rivolta senza tra l’altro alcun fondamento di verità; cosa dimostrabile dalla timeline dei miei post.
Chiedo quindi che venga immediatamente pubblicata una rettifica che evidenzi molto chiaramente la mia totale imparzialità nel riportare sia la notizia che le successive smentite.

 

Nonostante io abbia chiesto più volte alla Lalli di introdurre il mio vero commento e di rettificare , ella non mi ha risposto omettendo la mia versione.

La legge n. 47 del 1948 (art. 8) Legge sulla stampa dispone che:

“Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.”